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Gabriella Di Rocco, Il santo patrono garante della città sulle monete medievali

 

La pratica di battere moneta, sin dal VI secolo a.C. quando quest'uso si diffonde nel mondo mediterraneo, ha rappresentato e continua a rappresentare l'affermazione di sovranità su un territorio, di autonomia e di indipendenza. È nella monetazione di età romana che si concentra maggiormente l'associazione tra il valore economico e il simbolo, l'immagine del potere; il ritratto diventa elemento caratterizzante della moneta imperiale, veicolo attraverso il quale l'imperatore sancisce la sua indiscussa autorità. Con il tracollo dell'Impero Romano d'Occidente la tendenza alla standardizzazione dei tipi monetali, già manifestatasi in età tardoimperiale, culmina con l'esasperazione dell'elemento decorativo e la graduale scomparsa di quello figurativo, tendenza accentuata in seguito nella monetazione carolingia.

A partire dalla fine dell'XI secolo la nuova realtà politica ed economica delle nascenti autonomie cittadine dell'Italia centro-settentrionale inizia ad essere rappresentata anche nella coniazione delle monete. I traffici estesi, che creano bisogno di moneta per alimentare il commercio e l'orgoglio comunale, fanno sì che ogni comune aspiri ad aprire una propria officina monetale. Battere moneta è una forma di esazione fiscale. Il diritto di zecca rientra tra le concessioni che gli imperatori elargiscono alle città per assicurarsene la fedeltà. I primi tipi monetali sono caratterizzati dal nome dell'imperatore che ha concesso il diritto di coniazione e dal nome della città che emette le monete [1] .

Alla coniazione dei denari d'argento di origine carolingia da parte di quelle città la cui attività economica e commerciale era più intensa, come Venezia e Firenze, si affianca un nuovo tipo monetale, il grosso , con l'effigie del santo patrono della città. Porre l'immagine del santo protettore sulle monete, se da un lato è il segno inconfutabile della fiducia della comunità nella protezione del santo, dall'altro contiene una precipua motivazione ideologica connessa con l'affermazione dei governi cittadini in riferimento all'identificazione dei santi patroni come emblema dell'autonomia cittadina [2] .

I santi rappresentati sulle monete, dai tratti rigidi ed essenziali, hanno caratteristiche comuni legate alla valenza simbolica di cui sono portatori: la mano destra alzata in atto benedicente, nella sinistra il pastorale o la croce posta su un'asta e, spesso, sul modello iconografico dell'imperatore che regge il globo, sono ritratti con l'immagine della città in grembo.

Saranno esaminati, in questa sede, i casi più esemplificativi.

Venezia

Sotto il regno di Enrico IV (1056-1102) e di suo figlio Enrico V (1102-1125), i denari della Serenissima sono caratterizzati al dritto dal nome dell'imperatore ENRICVS IMPERA e dalla croce tricuspidata accantonata da quattro globetti e al rovescio, per la prima volta, dalla leggenda S MARCVS VENECIA con il busto nimbato di San Marco in posizione frontale con aureola e pallio ( fig. 1 ) [3] . Nell'828 alcuni mercanti veneziani avevano trasferito le reliquie del Santo da Alessandria d'Egitto a Venezia per impedirne la profanazione ad opera dei Saraceni. Da questo momento l'Evangelista rappresentato con il leone alato diventa il Santo patrono della Serenissima.

Sino alla fine del XII secolo i dogi proseguono la coniazione dei nominali di ascendenza carolingia con l'effigie del patrono della città.

Tra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo Enrico Dandolo (1192-1205) inizia la coniazione del denaro grosso o matapan , un nominale che sostituisce il denaro carolingio, che si diffonde rapidamente in tutto il Mediterraneo ed è largamente imitato nell'Italia settentrionale come in Oriente [4] .

Il matapan reca al dritto l'immagine del Cristo con nimbo crociato seduto in trono con il vangelo appoggiato sul ginocchio sinistro e al rovescio la figura di San Marco e il doge ( fig. 2 ) [5] .

Con Giovanni Dandolo (1280-1289) viene coniato il ducato d'oro caratterizzato, al dritto, dall'immagine di San Marco a sinistra nimbato e barbato con paludamento e con il vangelo nella mano sinistra, mentre la mano destra porge l'orifiamma con la croce al doge che, di profilo a destra con mantello e berretto ducale, è genuflesso e stringe l'asta con ambo le mani. Al rovescio, in un'aureola ellittica cosparsa di nove stelle, Cristo frontale in piedi con nimbo crociato, avvolto in una lunga veste, che regge con la sinistra il vangelo e con la destra benedice [6] .

Fig. 1

Fig. 2

Fig. 1 - Venezia: denaro di Enrico V (1102-1125) con busto di San Marco (da CNI, VII, tav. I).
Fig. 2 - Venezia: matapan del Doge Ranieri Zeno (1253-1268). Diritto: San Marco col nimbo tiene il Vangelo e porge il vessillo al Doge. Rovescio: Cristo seduto in trono regge il Libro (da ERCOLANI COCCHI 2001, p. 36).

Firenze

Nel prima metà del XIII secolo, quando Firenze si è ormai sottratta al dominio imperiale, inizia la coniazione del fiorino d'argento con la leggenda FLORENTIA e il giglio fiorito sul dritto e sul rovescio il mezzo busto di San Giovanni Battista ( fig. 3 ), patrono della città, con nimbo, in posizione frontale, barbato, nell'atto di benedire con la destra e con la croce nella sinistra [7] .

A partire dal 1252 al fiorino d'argento si affianca il fiorino d'oro: San Giovanni appare barbato col nimbo perlinato, frontale, con tunica e gran mantello di pelo allacciato al petto, nella consueta posa della mano destra benedicente e della sinistra che regge la croce ( fig. 4 ). In altri esemplari San Giovanni, nimbato e barbato con tunica e mantello di pelo, appare seduto in trono ( fig. 5 ). L'effigie del Battista sarà tipica di tutta la monetazione fiorentina sino all'unità d'Italia. Anello di congiunzione tra l'Antico e il Nuovo Testamento, San Giovanni Battista è rappresentato sia nel consesso dei grandi patriarchi d'Israele, sia tra i primi martiri della fede. Sulle monete fiorentine è privilegiata l'immagine dell'anacoreta nel deserto, estito con la pelle di cammello [8] .

Fig. 3

Fig. 4

Fig. 5

Fig. 3 - Firenze: fiorino con busto di San Giovanni Battista; prima metà XIII secolo (da VANNI 2003, tav. I, n. 3).
Fig. 4 - Firenze: fiorino d'oro con figura intera di San Giovanni Battista, barbato, frontale con tunica e mantello; XIV secolo (da VANNI 2003, tav. I, n. 9).
Fig. 5 - Firenze: fiorino d'oro con San Giovanni Battista in trono con tunica e mantello; metà XIV secolo (da VANNI 2003, tav. II, n. 27).

Ancona

Il grosso agontano con l'effige di San Ciriaco rappresenta la moneta più nota coniata da Ancona nel Medioevo e, allo stesso tempo, il nominale marchigiano di maggior prestigio, ampiamente imitato in numerose città dell'Italia centro-settentrionale [9] .

L'esatta origine di questo conio è incerta, tuttavia l'inizio della sua produzione deve inquadrarsi nell'ambito degli intensi rapporti che Ancona rinnova con Bisanzio quando, dalla metà del XIII secolo circa, il restaurato impero bizantino offre alla città le condizioni per incrementare e consolidare i commerci con l'Oriente; il ruolo economico di Ancona, in continua rivalità con la Serenissima, è, in questi anni, ingente e il suo peso politico di indubbia rilevanza [10] .

Vescovo di Gerusalemme, San Ciriaco fu martirizzato nel IV secolo; nel V il suo corpo venne trasferito ad Ancona, prima nella chiesa di Santo Stefano, poi nella cattedrale dove rimane tuttora.

Il tipo del doppio grosso anconetano, particolarmente diffuso tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo, riprende l'immagine di San Ciriaco vescovo, che era raffigurata nei due plutei della cattedrale a lui dedicata, databili alla seconda metà del XII secolo. Il santo è rappresentato in piedi in paludamento episcopale, benedicente con la destra e con il pastorale nella sinistra ( fig. 6 ). La zecca anconetana conia monete con l'effigie di San Ciriaco almeno sino alla prima metà del XVI secolo.

Fig. 6

Fig. 6 - Ancona: doppio grosso con la figura di San Ciriaco in paludamento episcopale; XIII secolo (da ERCOLANI COCCHI 2005, p. 76, fig. 15).

Arezzo

Nell'ultimo quarto del XII secolo il crescente sviluppo delle attività commerciali e l'apporto prestigioso di alcune tra le più importanti famiglie locali (i Bostoli e i Tarlati), spesesi per rafforzare il potere comunale e sostituirsi all'autorità vescovile, induce, dietro concessione imperiale (anno 1196), la città di Arezzo a battere una propria moneta [11] .

Mediante un accordo tra l'autorità vescovile e il potere laico, accordo testimoniato da documenti d'archivio della metà del XIII secolo, viene ceduto al Comune il diritto di battere moneta dietro il pagamento di una percentuale sui proventi ricavati [12] . Tali monete recano sul rovescio l'effigie di San Donato, vescovo, martire e patrono della città. La raffigurazione del santo, sostituendo il nome dell'imperatore, rivela che la coniazione dovette avvenire quando il comune di Arezzo aveva ormai ottenuto la piena autonomia. L'iconografia di San Donato sulle monete della zecca aretina si distingue in quattro tipologie: a mezzo busto, a figura quasi intera, a figura intera, seduto in cattedra [13] .

Per quanto riguarda il primo tipo, l'iscrizione S. DONATUS, posta sul rovescio, è accompagnata dall'effigie del santo raffigurato con barba, mitra e nimbo perlinato, con la mano destra benedicente, nella sinistra regge il pastorale, indossa la pianeta decorata con crocette o con globetti. Nel secondo tipo, la figura del santo è quasi intera, nimbata, imberbe, indossa gli abiti vescovili ed è posto di prospetto. Nel terzo tipo il santo è rappresentato a figura intera ( fig. 7 ) che interrompe con i piedi la legenda: indossa la tunica e sopra di essa la pianeta decorata da una serie di crocette a rilievo; il volto è incorniciato da una lunga barba, la testa con la mitra vescovile è circondata dal nimbo perlinato. Infine nel quarto tipo San Donato è seduto in cattedra, con il nimbo perlinato e la mitra, barbato, la mano destra benedicente e la sinistra con il pastorale.

Il corso delle monete aretine con l'effigie di San Donato prosegue sino al 1542 quando ‘un bando in Arezzo per parte di maestro de la zecca de la città di Fiorenza (imponeva) che non si spendesse per l'avvenire se non monete ducali battute in zecca di Fiorenza' [14] .

Fig. 7

Fig. 7 - Arezzo: grosso con l'effigie di San Donato a figura intera; XIII secolo (da VANNI 2005, p. 103, fig. 1).

Lucca

La zecca di Lucca, che aveva una tradizione monetaria ininterrotta sin dall'età longobarda, continuò a battere moneta a nome degli imperatori germanici. La prima coniazione autonoma si colloca dopo il 1209, quando, in relazione al privilegio concesso alla città da Ottone IV, Lucca conia i primi grossi d'argento. In questo periodo viene introdotto il tipo del Volto Santo, il Cristo crocifisso venerato nel duomo della città, espressione del distacco dai tipi tradizionali [15] .

È solo all'inizio del XIV secolo che Lucca realizza il fiorino contraddistinto sul dritto dal Volto Santo posto di tre quarti e sul rovescio dall'effigie di San Martino a cavallo in veste di crociato ( fig. 8 ); con questo nominale la città segna il totale abbandono degli schemi connessi con l'autorità imperiale [16] .

La figura del Santo di Tours ritratto sul fiorino lucchese si ispira alla celebre raffigurazione plastica di scuola pisana della Carità di San Martino ( fig. 9 ), datata all'inizio del XIII secolo, posta originariamente sul fronte esterno del duomo di Lucca: il Santo è qui rappresentato nel noto episodio dell'incontro con il mendicante al quale dona metà del proprio mantello. La città, posta lungo la via Francigena, diviene nel Medioevo centro nodale per i pellegrini diretti a Roma e meta essa stessa di pellegrinaggio per l'attrazione del Volto Santo, come testimonia il labirinto scolpito sul pilastro di destra del duomo, simbolo dell'eterno andare umano ( fig. 10 ) [17] .

Fig. 8

Fig. 9

Fig. 10

Fig. 8 - Lucca: fiorino. Diritto: il Volto Santo posto di tre quarti. Rovescio: San Martino a cavallo in veste di crociato; inizi XIV secolo (da PANVINI ROSATI 1974, tav. II, fig. 5).
Fig. 9 - Lucca: duomo, carità di San Martino; XIII secolo.
Fig. 10 - Lucca: duomo, labirinto.

Rimini

L'inizio della coniazione dell'agontano riminese con l'effigie di San Gaudenzio, primo vescovo della città, risale agli inizi del XIV secolo (anno 1307) quando Rimini e tutto il territorio circostante sono sotto il controllo dei Malatesta ( fig. 11 ).

I quattrini emessi da Sigismondo Malatesta a partire dalla prima metà del XV secolo riportano sia San Gaudenzio, che San Giuliano. L'adozione di San Gaudenzio vescovo era probabilmente dettata dall'esigenza da parte della città di Rimini di adeguarsi all'iconografia vescovile anconetana; la presenza di San Giuliano sulle monete riminesi, invece, stava a simboleggiare l'indipendenza del comune dal potere vescovile, indipendenza legata al racconto dell'arrivo miracoloso sulle spiagge riminesi del corpo del santo, martirizzato nel 260 d.C [18] .

Fig. 11

Fig. 11 - Rimini: agontano con San Gaudenzio; inizi XIV secolo (da ERCOLANI COCCHI 2005, p. 78, fig. 19).

Bologna

Sul finire del XII secolo anche la città di Bologna, grazie al privilegio imperiale del 1191, inizia a coniare la propria moneta, il bolognino , recante sul dritto il nome dell'imperatore Enrico VI e sul rovescio quello della città emittente [19] .

Nel 1236, come testimonia la cronaca Bolognetti [20] , viene prodotto per la prima volta il bolognino grosso [21] , con il quale anche Bologna si allinea a quella riforma monetaria che aveva preso avvio il secolo precedente e che aveva visto tra le protagoniste principali le grandi città commerciali di Venezia, Firenze, Genova e Pisa.

Nel 1340 il Pontefice Gregorio X concede a Taddeo Pepoli, già acclamato nel 1337 dai bolognesi quale governatore della città, il titolo di vicario della Chiesa. Nei dieci anni nei quali il Pepoli tiene la signoria della città viene coniato il doppio grosso, detto pepolese ( fig. 12 ) o grosso agontano su ispirazione del nominale anconetano, recante sul dritto il nome di Taddeo Pepoli e la croce patente, sul rovescio la legenda S.P. DE BONONIA e la figura frontale stante di San Pietro titolare della cattedrale bolognese, con le chiavi ed il libro. Appare qui per la prima volta sulle monete della città l'immagine di San Pietro. I figli di Taddeo Pepoli, Giovanni e Giacomo, subentrati al padre nel 1347, coniano soltanto bolognini a loro nome, finendo per vendere Bologna all'arcivescovo di Milano Giovanni Visconti nel 1350. Sul finire del XIV secolo, proprio quando, dopo la parentesi viscontiana, la città ritorna sotto il pieno dominio della Chiesa, viene prodotto il bolognino d'oro, che reca al dritto la leggenda BONONIA DOCET e il leone rampante con il vessillo e al rovescio la leggenda S PETRVS APOSTOLVS e l'effigie di San Pietro stante. Contemporaneamente al bolognino d'oro vengono coniati anche grossi agontani, sui quali è rappresentata per la prima volta la figura di San Petronio, santo patrono della città dal XIII secolo, benedicente, con la mitra e il pastorale [22] .

Questa figura resta caratteristica della zecca bolognese per circa quattro secoli.

San Pietro coesiste per alcuni secoli insieme a San Petronio e fino a Leone X (1513-1521) rappresenta il tipo principale della moneta d'oro bolognese. San Petronio, che appare per la prima volta sui grossi dell'ultimo quarto del XIV secolo, diventa il simbolo dell'appartenenza del popolo alla comunità e dell'orgoglio municipalistico dei bolognesi, negli anni in cui questa stessa comunità avvia la grande impresa della costruzione della basilica dedicata al santo cittadino [23] .

San Petronio è, pertanto, il riferimento religioso della città in contrapposizione alla tradizionale iconografia pontificia riflessa nella figura di San Pietro. Il santo è raffigurato seduto in trono per la prima volta sui grossi di Eugenio IV (1431-1438) con il pastorale e la città ( fig. 13 ); questa iconografia dominerà tutta la monetazione bolognese sino alla fine del XVIII secolo.

In conclusione, appare evidente come la pratica di raffigurare l'effigie del santo patrono sulle monete, promossa dalla Serenissima a partire dalla fine dell'XI secolo, divenga in età comunale elemento di identificazione cittadina e testimoni la piena autonomia politica ed economica raggiunta dalle principali città dell'Italia centro-settentrionale, proseguendo sino all'età moderna.

La rigida fissità dei tipi iconografici e degli elementi decorativi rappresentati sulle monete suggerisce, inoltre, l'assoluta priorità da parte delle nascenti autonomie cittadine della valenza politica ed economica di queste emissioni sull'aspetto più strettamente artistico e stilistico.

Figg. 12 e 13

Fig. 12 - Bologna: pepolese con la figura frontale stante di San Pietro con le chiavi; anno 1340 (da ERCOLANI COCCHI 2005, p. 77, fig. 18).
Fig. 13 - Bologna: grosso con San Petronio seduto in trono con la città in grembo; XV secolo (da CNI, X, tav. II).

BIBLIOGRAFIA

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VANNI 2003 = F.M. VANNI, La monetazione della Toscana nelle civiche raccolte numismatiche di Milano. Parte I: Zecca di Firenze, in La monetazione della Toscana, Milano.

VANNI 2005 = F.M. VANNI , Le emissioni di grossi della zecca aretina e la tipologia dell'agontano , in L'agontano. Una moneta d'argento per l'Italia medievale , a cura di L.

Travaini, Atti del Convegno in ricordo di Angelo Finetti, Trevi (Perugia), 11-12 ottobre 2001, pp. 99-110.

1 Nella vasta bibliografia in merito si vedano: PANVINI ROSATI 1961; ID . 1963, pp. 5-23; ERCOLANI COCCHI 2001, pp. 33-34; TRAVAINI 2007.

[2] ERCOLANI COCCHI 2005, p. 60.

[3] CNI , VII.

[4] PANVINI ROSATI 1974, p. 136.

[5] STAHL 2000, pp. 16-27.

[6] SACCOCCI 1991, pp. 253-258; STAHL 2000, pp. 28-34.

[7] CNI , XII.

[8] GORINI 1974, pp. 77-84; VANNI 2003.

[9] CNI , XIII, pp. 1-52.

[10] ERCOLANI COCCHI 2005, p. 59; ROSSI 2005, pp. 31-38; SACCOCCI 2005, pp. 19-30.

[11] CNI , XI.

[12] VANNI 2005, p. 100.

[13] PANVINI ROSATI 1974, p. 135 e p. 140; VANNI 1997, p. 16.

[14] VANNI 1997, p. 26.

[15] PANVINI ROSATI 1974, p. 133.

[16] ID. 1974, p. 139.

[17] PATITUCCI UGGERI 2004, pp. 44-48.

[18] ERCOLANI COCCHI 2001, pp. 33-38; EAD . 2005, pp. 55-78.

[19] CNI , X, pp. 1-172; PANVINI ROSATI 1961, pp. 112-13 riporta il privilegio di Enrico VI: ‘ amore inducti concessimus licentiam in civitate Bononia cudendi monetam et loco communis ipsius civitatis Potestatem Agnellum huius concessionis dono investivimus, hoc tenore ut secundum quod eis visum fuerit expediens faciant monetam hoc excepto quod moneta ipsorum nostris imperialibus nec quantitate nec forma nec valentia debet adequari '.

[20] PANVINI ROSATI 1961, p. 14.

[21] CNI , X, pp. 2-6.

[22] PANVINI ROSATI 1961, pp. 15-16; BELLOCCHI 1987, pp. 16-18.

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