Cono
A. Mangieri, Gentucca ... figlia spuria di Dante?
3. Tornando adesso alla «donna santa e presta»,
noi dobbiamo domandarci se è attendibile che questa Donna
possa significare la Giustizia Divina venuta a far giustizia della
Femmina Balba. A parer mio, una simile possibilità va considerata
doppiamente contraddittoria: in primo luogo, la Giustizia Divina
non si serve della ragione umana (qualunque filosofia essa segua)
per espletare il proprio ufficio provvidenziale; in secondo luogo,
non sussiste un motivo per cui essa dovrebbe intervenire nel sogno
anziché nella realtà. Visto, inoltre, che nella scena
onirica la Donna effettua pure un'azione consigliativa (infatti
Vergilio-Ragione si muove dietro suo consiglio), si deve anche concludere
che la Giustizia Divina usi non solo far giustizia, ma anche consigliare
anticipatamente al fine che un essere umano (il Protagonista) non
compia azioni peccaminose (come quelle perorate dalla Femmina Balba). Sarebbe
un postulato teologicamente assurdo in quanto la Giustizia Divina
non 'consiglia' bensì 'rende giustizia', ossia dà
il premio oppure il castigo dopo che si sono verificate le arbitrarie
azioni umane poste in giudizio: posteriormente ha giudicato Ulisse,
lo stesso ha fatto con Catone e similmente fa con ogni uomo giacché,
se agisse con anticipo, non farebbe uopo un Giudizio Universale
e «mestier non era parturir Maria» (Pg. III 39). Qualcosa
di simile mi pare che possa dirsi nei riguardi della Grazia Divina,
giacché neanche questa avrebbe bastevoli ragioni anagogiche
per intromettersi a questo punto, quando il tragitto di perfezionamento
è per la metà concluso; meno che mai avrebbe motivo
di farlo in coppia con una Femmina Balba palesemente lasciva: questa
è chiamata in causa soltanto per commemorare i peccati di
Ulisse commessi pure dal Protagonista, e perciò serve solo
a rinfrescare oniricamente la memoria di quest'ultimo, così
come la «donna santa e presta» serve solo a stimolarne
il riconoscimento e la successiva purgazione. In verità,
la scena e il contesto escludono perentoriamente che l'allegorismo
del secondo sogno implichi un intervento sovrannaturale, perché
in nessun luogo il poeta afferma letteralmente che la «donna
santa e presta» sia calata dall'Empireo. E si sa che quanto
non viene detto nel senso letterale, non può sussistere nei
sensi reconditi. [1]
In effetti Ulisse e Catone, per porre termine al rispettivo periodo
lussurioso od epicureo, che dir si voglia, hanno fatto tutto senza
aiuto celestiale, ossia giovandosi del proprio intelletto possibile
e ricorrendo alla propria 'ragione stoica' del momento, che per
entrambi si riduce alla messa in atto delle quattro Virtù
Cardinali. Anche Dante Protagonista, a suo tempo, è riuscito
ad arginare il proprio periodo lussurioso / epicureo grazie al raziocinio
ispiratogli dalle Virtù Cardinali, altrimenti il poeta non
ce ne avrebbe offerto la ripetizione attraverso il sogno con la
Femmina Balba e la Donna Santa e Presta. Adesso, però, diventa
impellente chiedersi perché mai egli e Vergilio abbiano bisogno,
durante la 'ripetizione' onirica, dello stimolo proveniente dalla
suddetta Donna per poter reagire opportunamente: quale impedimento
ha fatto in modo che Vergilio non allarmasse tempo prima il Protagonista?
La risposta si cela nel fatto assai logico che il Protagonista e
la sua Ragione formano nel poema un'unica entità, la quale
adesso, nella realtà biografico-allegorica in cui è
collocato l'allegorismo onirico, non agisce sotto un influsso stoico
bensì sotto un influsso peripatetico. In effetti la critica
non ha ancora rilevato chiaramente che Vergilio dantesco mostra
tutti i segni e tutti i requisiti atti a far di lui un Peripatetico
(per la verità, tale è stato anche Vergilio storico).
Essendo egli indicato anche letteralmente come simbolo della Ragione
dantesca, non ci vuol molta perspicacia per dedurre ulteriormente
che egli rappresenti il Raziocinio Peripatetico Dantesco, ovvero
l'Anima Razionale Dantesca di essenza peripatetica, il cui ufficio
(enunciato in If. I-II) è di portare l'Anima Sensitiva Dantesca
(il Protagonista in carne ed ossa) fino a «tre passi»
(Pg. XXVIII 70) dall'acquisizione della massima felicità
terrena (l'Eden oltre il fiume Letè). Possedendo un
contenuto filosofico esclusivamente peripatetico, Vergilio può
simboleggiare in effetti anche il peripatetismo etico-fisico, vale
a dire l'Etica Aristotelica (non fa caso se di interpretazione averroistica,
avicennistica, albertina o tomistica). E si sa bene che il Peripatetismo
non pone l'accento sulle quattro Virtù Cardinali, come invece
fa lo Stoicismo, né dona di per se stesso, essendo filosofia
fondamentalmente pagana, la forza spirituale insita nelle Virtù
Teologali del Cristianesimo. Per Dante, il razionalismo peripatetico
funge da intermediario tra il Paganesimo e il Cristianesimo; ed
è per queste sue qualità intermediarie, che nel Convivio
riceve la qualifica di «quasi cattolica oppinione».
[2]
Essendo Aristotele vissuto storicamente prima di Epicuro, [3] e
perciò non avendo potuto reagire direttamente (negli scritti)
contro i precetti deleteri della sua filosofia, diventa logico e
palmare che neanche il peripatetico Vergilio potrebbe reagire contro
le moine della Femmina Balba, se non intervenisse uno stimolo supplementare
a scuoterlo e fargli tuttavia riconoscere l'essenza negativa di
quel richiamo tutto sensitivo. Che una reazione possa tuttavia
aver luogo si spiega col fatto che il Peripatetismo, pur senza metterle
su un piedistallo, non ignora le quattro Virtù Cardinali,
che nella classificazione aristotelica fanno parte del gruppo generico
delle undici Virtù Morali. In altri termini, poiché
nella realtà extra onirica il raziocinio dantesco (simboleggiato
da Vergilio) si basa sull'etica aristotelica, la quale non argomenta
direttamente contro il tipo di 'felicità' predicata da Epicuro
(che peraltro è pur sempre la massima felicità terrena
dell'anima umana, sebbene di natura 'sensitiva'), nel sogno scatta
una sorta di allarme automatico che, agendo come una ragione subcosciente
nel Protagonista, stimola la sua ragione cosciente a ricercare le
considerazioni etico-fisiche atte a far dichiarare deleteria l'essenza
potenzialmente negativa (se determinata da eccesso oppure no) delle
attività perorate dalla Femmina Balba. La leggerezza di giudizio,
ovvero la leggera 'incompetenza', messa in mostra dall'etica aristotelica
nelle questioni riguardanti colpe di natura epicurea (eccesso di
prodigalità, golosità e lussuria), sarebbe anche la
ragione per cui Dante ha ridotto la lezione fisico-morale di Vergilio
a due sole terzine (rispettivamente vv. 31-3 e vv. 58-60).
Ora, chi o che cosa può 'scuotere' una Ragione Peripatetica
alquanto 'dormigliona' nei riguardi di attività sensitive
fondamentalmente epicuree, se non il simbolo di un concetto che
si sia mostrato appunto più 'sveglio' nel condannare la filosofia
favorevole a tali attività? A mio parere, è palmare
che questo simbolo concettuale possa indicare soltanto la Filosofia
Stoica oppure la Religione Cattolica, le uniche due correnti intellettuali
che hanno apertamente avversato la Filosofia Epicurea, avendone
tempestivamente riconosciuto le conseguenze deleterie per ogni ordinato
e produttivo vivere civile. [4] E si badi che a ciò
non si oppone il fatto che Dante, nel Convivio, un paio di
volte scriva che la dottrina epicurea 'concorre', assieme con quella
stoica e con quella peripatetica, a raggiungere il traguardo delle
«Atene Celestiali»: infatti, 'concorrere' non vuol dire
automaticamente 'vincere'. [5]
A questo punto, urge fare una scelta tra la Filosofia Stoica e la
Religione Cattolica, per assodare quale di questi due concetti potrebbe
aver fornito al poeta il simbolo detto «donna santa e presta»,
che compare nel secondo sogno del Purgatorio per sgridare «fieramente»
il simbolo del raziocinio peripatetico etico-fisico dantesco:
O Virgilio, o Virgilio, chi è questa?
Chiarito a priori che sia proprio la «donna santa e presta»
a pronunciare la frase, e non qualche altro personaggio onirico,
[6] a me sembra lecito e giustificato eliminare immediatamente
l'eventualità che il simbolismo riguardi la Religione Cattolica,
anzitutto perché nella Commedia, secondo me, questo
concetto va visto conglobato nel simbolismo di Beatrice: però
questo simbolo non potrebbe mostrarsi al Protagonista prima dell'Eden,
ossia prima che egli abbia portato a termine il suo personale cammino
di purgazione spirituale e di perfezionamento intellettuale. Infatti
non per nulla il Protagonista viene costretto ad attraversare tutto
l'Inferno e il Purgatorio, eppoi a passare attraverso i simboli
catartici del fuoco e dell'acqua, prima di ricevere il permesso
di portarsi al fianco di Beatrice Edenica: questa «donna santa
e presta», invece, viene dal nulla e gli passa «lunghesso
me» (v. 27) come se fosse cosa logica e scontata, quando sulla
sua fronte di carne ed ossa spiccano ancora tre 'P' quasi sanguinanti.
L'intervento limbico di Beatrice sulla Ragione Peripatetica del
Protagonista è giustificabile come avvenimento iniziale del
viaggio ultramondano (l'intervento rappresenterebbe il nascere dell'idea
dantesca relativa all'esame di coscienza 'quasi cattolico' allegorizzato
nella prima cantica); l'intervento edenico di Beatrice sul Protagonista
si giustifica come evento centrale del viaggio ultramondano (esso
rappresenterebbe il raggiungimento del culmine intellettual-religioso
terreno da parte di Dante 'cattolico'): ma come si dovrebbe giustificare
polisemicamente un eventuale intervento di Beatrice, a questo eccentrico
punto del tragitto di perfezionamento etico-fisico-religioso dantesco?
Anche pensando a un altro simbolo di religiosità cattolica
(per esempio, a Maria Vergine proposta dal Torraca), è attendibile
che Dante non lo avrebbe fatto intervenire nel sogno, bensì
nella realtà purgatoriale, come vediamo accadere nel caso
onirico precedente, che mostra l'Aguglia avere nel sogno il posto
avuto da Lucia nella realtà.
Tutto ciò considerato, non resta che rivolgersi a un simbolismo
riguardante la Filosofia Stoica; vale a dire: la filosofia ossequiata
in un secondo tempo da Catone, il personaggio che nell'antipurgatorio
sgrida fieramente una schiera di spiriti poco 'svegli', tra cui
pure Vergilio, tutti intenti a lasciarsi ammaliare dall'arrangiamento
di Casella sulle parole della canzone dantesca Amor, che ne la mente
mi ragiona. [7] Mi sembra giustificato opinare che ciò
accada anche perché fu proprio lo Stoicismo a considerare,
ancor prima di sant'Agostino, la musica e il canto di carattere
profano come espressioni di edonismo. In accordo con lo spirito
stoico che lo impregna ancora nell'Aldilà, dunque, anche
Catone dantesco si sente indotto a saltare sui trampoli per gridare
da lontano (Pg. II 120-3):
Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch'esser non lascia a voi Dio manifesto.
Si faccia attenzione alle corrispondenze scenico-contenutistiche
create da Dante per aiutarci ad individuare simbolo e simbolismo:
«lenti» erano gli spettatori/ascoltatori nella scena
antipurgatoriale, lenti sono gli spettatori/ascoltatori nel secondo
sogno purgatoriale (e non può dubitarsi che si tratti ambedue
le volte di 'lentezza' spirituale, ossia di accidia o negligenza);
di amore trattava il canto di Casella, di amore tratta il canto
della Dolce Serena; [8] pronto e veemente era stato l'intervento
di Catone, analogo è l'intervento della «donna santa
e presta»; interrogativamente cominciava il rimbrotto di Pg.
II, interrogativamente inizia il rimbrotto di Pg. XIX. [9]
In entrambi i casi, poi, sembra (ed è in effetti così,
essendo appunto lui il simbolo raziocinante) che il rimprovero colpisca
segnatamente Vergilio, il quale accusa il colpo sia nell'Antipurgatorio,
mostrandosi poi afflitto di aver commesso un «picciol fallo»
(III 7-9), sia nel Purgatorio dov'egli, obbedendo
con li occhi fitti pur in quella onesta,
mostra appunto di riconoscere la propria insufficienza consigliativa
almeno nella questione or ora toccata. [10] Ma bisogna considerare
ancora la più indicativa corrispondenza concettuale reperibile
nei due luoghi, vale a dire quella tra i binomi aggettivali «veglio
onesto» (II 119), riferito a Catone, e «quella onesta»
(XIX 30), riferito alla misteriosa donna. Mi pare opportuno rilevare,
qui, che Dante ha visto nell'aggettivo 'onesto' un'origine tutta
stoico-etica, legata al decoro virtuoso ed all'onor civico, com'egli
leggeva non solo nei testi classici pagani (Cicerone, Seneca), ma
anche nei testi moderni cristiani; per esempio, nell'Aquinate: «dicitur
[...] honestum quasi honoris status, quoniam ad hoc pertinere videtur
et ipse honor et virtus quae est honoris causa». [11]
Da tutte queste considerazioni risulta chiaro, almeno ai miei occhi,
che il simbolismo addossato alla «donna santa e presta»
sia per l'appunto inerente alla Filosofia Stoica; che è come
dire: l'essenza razionale di Catone Uticense, il quale non senza
un'intenzione strutturale o intertestuale riceve il compito di vegliare
su tutti i Gironi purgatoriali. Anzi, è proprio il 'lento'
Vergilio a rivelarci questo compito vigilatore di Catone, allorché
lo prega di permettere la scalata del Monte a lui ed al Protagonista:
Lasciane andar per li tuoi sette regni; (I 82)
e ben dopo avergli fatto capire di sapere che le Anime del Purgatorio
sono intente a purgarsi sotto la sua «balia» (I 66),
che sarebbe appunto la sua funzione vigilatrice stoica. Per quale
ragione avrebbe Dante assegnato questa funzione all'Uticense, scegliendolo
fra tutti gli *spiriti magni+ del Limbo, se non per il fatto che
questa sua controfigura si sia dedicata per quasi tutta la vita
alla severa dottrina stoica, quella stessa che aleggia nell'intervento
antipurgatoriale e che, durante il secondo sogno di Dante, si fa
vedere e sentire nelle sembianze di una «donna santa e presta»
? Questa Donna non è altro che il fantasma dell'antico
spirito stoico, il quale è rimasto nel subcosciente di Dante
anche dopo l'accettazione cosciente del Peripatetismo come guida
razionale: si può dire che il Vergilio del sogno sia 'lento',
proprio perché deve richiamare alla mente del lettore il
Vergilio 'lento' della scena antipurgatoriale.
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[1] Stando al poeta stesso, il suggerimento per l'interpretazione
allegorica si trova sempre incluso nel senso letterale, il quale
«dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza
li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile e inrazionale
intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico» (Convivio
II i 8).
[2] Convivio IV vi 16. L'avverbio «quasi», in questo
luogo, va considerato come scemativo nei riguardi della «cattolica
oppinione»; pertanto indica una carenza razionale della dottrina
peripatetica rispetto alla dottrina cattolica. Logicamente l'essenza
'quasi cattolica' del Peripatetismo é stata messa in luce
dai commentatori cattolici sant'Alberto Magno e san Tommaso d'Aquino,
non dai commentatori islamitici (Averrois, Avicenna).
[3] Aristotele (384-322 a. C.) fondò ad Atene nel 335 a.
C. la Scuola Peripatetica; Epicuro (342-271 a. C.) fondò
nel 306 a. C. pure ad Atene la Scuola Epicurea (il cosiddetto «Giardino»);
Zenone (336-264 a. C.) fondò nel 300 a. C. ugualmente ad
Atene la Scuola Stoica.
[4] Va ricordato che i Cristiani si sono distanziati dall'ideologia
epicurea quasi per le stesse ragioni addotte dagli Stoici. Il fondatore
della Stoa, Zenone, condusse una focosa diatriba filosofica contro
il contemporaneo Epicuro; e stando a Sallustio, anche lo stoico
Catone si è spesso scagliato contro qualsiasi mollizie epicurea
scorta nel comportamento dei concittadini. L'altrettanto stoico
Cicerone, infine, si è ugualmente pronunciato contro la dottrina
di Epicuro giudicandola 'fatale' per ogni società laica e
per ogni religione di questo mondo, perché essa nega non
solo l'immortalità dell'anima, ma anche la probabilità
di un intervento divino nelle faccende terrene (cfr. almeno De natura
deorum I, 41-3).
[5] Cfr. Convivio III xiv 15: «Per le quali tre virtudi (=
Fede, Speranza e Carità) si sale a filosofare a quelle Atene
celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la vertù
de la veritade etterna, in uno volere concordevolmente concorrono».
Avverto che io, in questo brano, emendo «per l'altre»
dei Codici in «per la vertù»; laddove gli Editori
Milanesi emendarono in «per l'arte», e Parodi-Pellegrini
in «per la luce» (restauro accettato poi anche dal Vandelli,
il cui testo seguo in ogni altro caso). Io considero il mio emendamento
non solo molto probabile dal punto di vista paleografico (l'errore
commesso dal primo amanuense sarebbe metatetico, causato dalla vicinanza
e dalla somiglianza dei probabili nessi antigrafici «lavertude
lavertade»), ma anche ottimamente giustificabile dal triplice
punto di vista linguistico-stilistico-concettuale, attraverso Convivio
IV iii 10, dove si legge correttamente «la vertude de la veritade»
appunto discorrendo della Filosofia. Le ragioni per cui Dante conviviale
sembra giudicare positivamente l'Epicureismo, esulano dalla portata
esegetica di questo articolo.
[6] Infatti vi sono stati lettori che hanno attribuito il verso
a Dante Protagonista. Ancora diversa è stata l'opinione di
Cervigni (Dante's poetry of dreams, cit., p. 146), il quale ha pensato
che l'interrogazione esca dalla bocca della Femmina Balba, alludendo
essa alla «donna santa e presta» e tentando di screditarla.
[7] Cfr. Pg. II 112 sgg.
[8] Vanno rilevati i concetti spiccatamente epicurei della 'dolcezza'
e del 'piacere', che si trovano nel contesto delle due scene: nel
caso della Femmina Balba, si hanno «dolce serena» e
«piacere»; in quello di Casella, si hanno «dolcemente»
e «dolcezza», preceduti dall'allotropico «soavemente»
(II 85).
[9] L'analogia tra l'intervento antipurgatoriale di Catone e l'intervento
purgatoriale della «donna santa e presta» è stata
rilevata pure da altri lettori, tra cui MEZZADROLI (cit., p. 46-8)
e MURESU (cit., p. 19), peraltro senza estrarne conseguenze simbologiche
approfondite.
[10] MURESU (Il richiamo dell'antica strega, cit., pp. 19-22) scrive
una sorta di apologia per difendere Vergilio dantesco dall'accusa
di 'insufficienza': tra l'altro, chiamando in causa Freud e Jung,
lo studioso pone che Vergilio onirico sia diverso da quello reale.
Ma non mi pare il caso, giacché Vergilio mostra anche nella
realtà purgatoriale di essere sempre meno valente come guida
razionale; tanto che bisogna quasi dare ragione a R. HOLLANDER,
quando parla del «bisogno di Dante di riportare in vita Virgilio
in un universo poetico cristiano solo per riseppellirlo» (Il
Virgilio dantesco: tragedia nella 'Commedia', Firenze, Olschki 1983,
p. 51). D'altra parte, per quale motivo l'inconscio dantesco, che
produce il simbolismo onirico, si sarebbe creato un Vergilio incompetente
o distratto, comunque diverso da quello reale? Se ciò avviene,
è proprio perché la figura onirica riflette quella
reale: il Protagonista 'conscio' non se n'è ancora reso conto,
ma il suo 'inconscio' lo ha già capito, e perciò lo
tradisce per il tramite del sogno.
[11] Cfr. SAN TOMMASO D'AQUINO, commento all'Etica Nicomachea I,
5. Va rilevato che Dante definisce «onesto» anche Sordello
(Pg. VI 63), autore del moralistico Ensenhamen d'Onor. In Convivio
IV xxii 11, Dante associa avverbialmente questo aggettivo alle Virtù
Cardinali, suggerendo che l'attività pratica (la Vita Attiva)
«è operare per noi virtuosamente (cioè onestamente)
con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia».
E mi pare opportuno far rilevare come il poeta, qui, non faccia
altro che chiamare per nome le Quattro Stelle che risplendono sulla
faccia del «veglio onesto» antipurgatoriale, anch'esse
intese generalmente come simboli di Virtù Cardinali e di
Stoicismo. In effetti, l'honestas è stato il cavallo di battaglia
degli Stoici greco-romani.
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