Franco DE
VIVO, "Interpretazioni onomastiche nella Historia ecclesiastica di
Beda e nella sua traduzione anglosassone", Rivista Italiana di Onomastica,
i (1995) 1, pp. 52-88
Il contributo
del De Vivo si segnala, oltre che per la finezza dell’analisi, per
l’ampiezza della bibliografia sfruttata con non comune acribia e
per l’interesse, anche al di fuori dell’àmbito della filologia
germanica, dei problemi che il caso specifico esaminato propone: l’interpretatio
nominis e la riflessione medievale sul nome proprio.
L’etimologia medievale non distingue tra nomina appellativa
e nomina propria: nel Liber etymologiarum d’Isidoro
di Siviglia il nome proprio non ha lo status di etichetta paragonabile
a quello che la moderna teoria linguistica tende ad attribuirgli, ma presenta
piuttosto la natura di ciò che oggi vien definito segno. I riferimenti
teorici dell’interpretatio nominis medievale sono fondamentalmente
il Liber interpretationis Hebraicorum nominum di Girolamo e il
Liber etymologiarum d’Isidoro. All’Autore appare ancora
operante anche la tripartizione quintilianea (Institutio oratoria
I 4,25), fondata sulle diverse causae riconoscibili nell’imposizione
di un dato nome (ex habitu corporis, ex casu nascentium, ex iis, quos
post natus eveniunt).
Sfruttando dunque la riflessione antica e tardo-antica sull’etimologia
del nome proprio, l’Autore individua cinque categorie grazie alle
quali è possibile una classificazione delle interpretazioni onomastiche
presenti nell’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda.
Ogni categoria corrisponde a un procedimento individuato dalla speculazione
etimologica precedente al monaco di Jarrow e a lui ben nota, come dimostra
la ricostruzione del contenuto della biblioteca dei monasteri di Jarrow
e Wearmouth fatta dal Laistner. A etnici e antroponimi si applicano perlopiù
due interpretazioni, quella ex habitu corporis (gli Angli sono
detti così in quanto angelicam habent faciem) e quella ex iis
quae post natus eveniunt: Aelle (primo re di Deira dal 560
al 588) prefigura nel suo nome il fatto che nel suo regno verrà cantato
un giorno l’alleluia (qui, in verità, la categoria quintilianea non
sembra descrivere compiutamente l’interpretatio nominis come
prefigurazione di un destino, tipica dell’esegesi medievale).
Alcune delle etimologie riguardanti i nomi di luogo sono accomunate dalla
figura dell’antonomasia. Da un lato abbiamo toponimi che derivano
da altri toponimi adiacenti (la categoria isidoriana ex nominibus locorum,
urbium vel fluminum, Liber etymologiarum I, 29, 5): «In monasterio,
quod iuxta amnem Dacore constructum ab eo cognomen accepit» (Historia
Ecclesiastica IV, 32, p. 446, citata nell’edizione a cura di
Colgrave e Mynors [Oxford 1969]). Dall’altro gli eponimi, come Hrofaescaestir
(nome dell’attuale Rochester, Kent), che viene da Beda interpretato,
erroneamente, come ‘città di un capo di nome Hrof’ (in realtà
si tratta di una corruzione del nome celtico Dorubreuis).
Se nettamente minoritario è il procedimento che prevede l’instaurazione
di un rapporto causa-effetto (per esempio il luogo detto Ad Candidam
Casam deriva il nome dal fatto che «ibi ecclesiam de lapide, insolito
Brettonibus more, fecerit» [Historia ecclesiastica III, 4, p. 222]),
la categoria della traduzione, intitolata isidorianamente ex diversarum
gentium sermone, è quella che contempla il maggior numero di casi
(ventidue su trentanove). Dietro tale prassi si staglia il modello del
Liber interpretationis Hebraicorum nominum, nel quale sistematicamente
viene fornita la traduzione dei nomi biblici dall’ebraico al latino.
Lo stesso procedimento investe molti dei nomi propri dell’Historia
ecclesiastica, come nel caso del toponimo celtico Inisboufinde
(oggi Inishbofin, isola antistante la contea di Galway), glossato
correttamente con Insula uitulae albae, o dell’etnico anglosassone
Nordanhymbri, spiegato nel modo che segue: Gens quae ad boream
Hymbri fluminis inhabitat. Convincente la motivazione che l’Autore
dà del fenomeno. Tali traduzioni manifestano, oltre che, banalmente, l’esigenza
di spiegare il significato di un nome proprio della tradizione celtico-inglese
altrimenti in parte o del tutto incomprensibile al lettore, la volontà
di conferire decoro a elementi lessicali volgari (e profani) all’interno
di un’opera latina di storia religiosa.
Nell’ultima parte del suo saggio l’Autore passa a esaminare
la traduzione anglosassone, compiuta verso la fine del IX secolo, dell’Historia
ecclesiastica, con l’intento di verificare «se all’esigenza
continuamente avvertita da Beda di spiegare il significato dei nomi propri
[il traduttore] reagisca, ancora, con una prassi coerente, o piuttosto
adotti di volta in volta soluzioni ad hoc» (p. 74). Dall’analisi
risulta una continuità sostanziale col testo bedaico per quanto riguarda
le interpretazioni onomastiche. Viene eliminato ciò che è superfluo, ossia
le traduzioni dei nomi anglosassoni, ma si accolgono le glosse ai nomi
celtici, come il già citato Inisboufinde, tradotto con Ealond
hwitre heahfore ‘Isola della vacca bianca’. E talvolta,
trattando di toponimi anglosassoni, alla traduzione viene sostuito, secondo
lo spirito dell’originale, un altro tipo di interpretazione. E’
il caso di Hefenfeld, glossato da Beda Caelestis Campus,
e che il traduttore anglosassone illustra “figuralmente” (cito
dalla versione italiana fornita dall’Autore): «Il posto è detto in
inglese Heofenfeld. E’ denominato in tal modo da lungo tempo,
quale segno dei futuri miracoli» (p. 80).
Gianluca D'Acunti
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