Walther Pohl, Le origini etniche dell'Europa. Barbari e Romani fra antichità e medioevo, Roma, Viella, 2000. Questo volume raccoglie e introduce saggi pubblicati in varie lingue, fra il 1988 e il 1998. Questi lavori si caratterizzano per l'unità dell'oggetto d'indagine, cioè i rapporti fra popolazioni barbariche e impero romano nei secoli fra tarda antichità e alto medioevo. Ma, oltre all'oggetto, elemento unificante del volume è l'ottica dell'autore, che cerca di mostrare come il concetto stesso di popolo, a proposito di gruppi come Longobardi, Goti, Visigoti ecc. vada rivisto profondamente. Non si trattava infatti, secondo l'autore, di gruppi omogenei e compatti, ma di aggregazioni fra gruppi di dimensioni minori. L'aggregazione era spesso determinata o favorita dalle contingenze politiche e in particolare dalle necessità del conflitto con i Romani: un'aggregazione ampia di guerrieri aveva per esempio maggior peso bellico, ma anche contrattuale (poteva cioè ottenere tributi maggiori). La formazione dell'idea di un'origine comune a tutti era momento essenziale di processi etnogenetici che proprio in quel periodo andavano appena avviandosi. Secondo Pohl e una tradizione di studi recente, ma già piuttosto articolata, cui egli fa riferimento, l'appartenenza ad un popolo non può essere determinata in base a criteri oggettivi, come la lingua, o la cultura materiale testimoniata da un corredo funebre, ma è un fatto eminentemente soggettivo: è longobardo o franco chi tale si sente ed è riconosciuto da altri. L'identità etnica, inoltre, non è data a priori, ma vista come un insieme mutevole e inafferrabile di fattori che si intrecciano variamente fra loro. L'identità etnica era un criterio che serviva, secondo i casi e i momenti, a distinguere un gruppo dagli altri, ma anche ad assimilare alla comunità un gruppo di nuovi arrivati. Ad esempio, i Longobardi che invasero l'Italia nel 568 erano in realtà una confederazione di gruppi preesistenti (ma lo stesso potrebbe dirsi anche dei Franchi di Clodoveo o dei Visigoti di Spagna). Per questo, l'identità etnica doveva essere abbastanza flessibile da poter essere adattata, all'occorrenza, ai nuovi venuti. Tuttavia, l'ottica attraverso cui Pohl guarda al fenomeno non è puramente funzionalista. Se è vero che l'identità etnica è il frutto di processi politici, in parte consapevoli, può anche essere a sua volta fattore determinante di azioni collettive da parte di gruppi che vi si riconoscono o vi si oppongono. L'estrema minuzia dell'analisi di Pohl è anche un metodo che si adatta a una situazione di estrema fluidità, durante la quale nascono gli elementi che saranno poi alla base della formazione dei popoli europei. Il periodo compreso fra la tarda antichità e il primo medioevo è, da questo punto di vista, un periodo cruciale, durante il quale le strutture politiche e culturali del basso impero creano le prime forme attraverso cui avrà luogo l'etnogenesi dei popoli europei. I barbari non possono essere visti come qualcosa a sé stante rispetto all'impero, ma debbono al contrario esservi compresi, come la periferia di un sistema-mondo. Ciò per vari motivi. Il più concreto è che i re barbari avevano bisogno dell'oro romano, la ragione stessa del prestigio sociale dei re barbari e quindi dell'esistenza delle embrionali strutture politiche di cui essi erano il centro. Ma anche, più sottilmente, perché i barbari, e poi i regni barbarici, erano, secondo Pohl, con un'affermazione dal gusto vagamente paradossale, una creazione del genio romano. L'autocoscienza dei popoli barbarici si costruì infatti anche sulla base delle categorie di interpretazione e classificazione che la cultura tardoromana aveva maturato a partire dalla tradizione biblica e dall'etnografia erodotea. Ma, ancora, il rapporto stesso di Romani e barbari era assai più strutturato e costruito, attraverso varie forme di mediazione, di quanto non possa a prima vista pensarsi. Esemplare, a questo proposito, è l'analisi semiologico/sociologica dei rapporti dell'impero con Attila e poi con gli Avari. I gesti apparentemente più insensati o consuetudinari del capo unno e delle ambascerie romane acquistano senso all'interno di un orizzonte comune alle due parti, nel quale il conflitto, di cui la guerra è una parte, viene gestito attraverso una serie di mosse e contromosse di mediazione. Quest'opera di decostruzione e di estrema relativizzazione del concetto stesso di popolo e delle opposizioni nette che su esso si basano ha una conseguenza inattesa, di cui l'autore è ben consapevole, cioè un ritorno in primo piano della storia politica e degli eventi, che costituiscono la trama del racconto trasmessoci dalle fonti scritte, oggetto pressoché esclusivo delle analisi di Pohl. Infatti, se le fonti sono "costruite", per di più in ambiente culturale romano, quindi all'esterno del mondo barbarico, esse vanno sempre considerate nel loro carattere, strutturato sulla base di una selezione, ma non per questo sono considerate come prive di contenuto reale, su un piano puramente testuale. D'altra parte, essendo l'identità etnica in costante divenire, "come molte cose in storia è possibile coglierla solo attraverso gli avvenimenti". Al termine della lettura, al di là dei risultati acquisiti, ci si chiede quali prospettive apra un'analisi come quella di Pohl nel senso di un discorso non puramente politico. L'identità etnica è in continua evoluzione, e l'autore si sforza di disarticolarla negli elementi che la compongono, ma essa sembra anche di fatto indefinibile. E, in effetti, l'ottica del libro è da una parte distruttiva, dall'altra uniformante, perché le storie politiche dei singoli popoli sono, di per sé, troppo individuali per essere "concettualizzabili". Ma sarà possibile, in qualche modo, parlare di Franchi, Visigoti o Longobardi, nel momento in cui questi gruppi compositi diventano stanziali? Il che vale a dire: è possibile che la storia politica sia l'unico modo di parlare dell'identità etnica, e che di questa non sia possibile dare alcuna definizione, per quanto flessibile e cauta, in termini di civiltà, o di struttura? Vito Lorè |
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