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Recensione di E. Necchi a Cavalieri e Città. Convegno Internazionale di studi, Volterra, Centro Studi Santa Maria Maddalena, 19-21 giugno 2008

Dal 19 al 21 giugno 2008, presso il Centro Studi Santa Maria Maddalena di Volterra, si è svolto il Convegno Internazionale di studi Cavalieri e città, organizzato dal Centro Europeo di Studi sulla Civiltà Cavalleresca con la partecipazione dei comuni di Volterra, San Gimignano e Certaldo.


Il primo giorno si è aperto con i saluti delle autorità. Il sindaco di Volterra Cesare Bartaloni ha sottolineato la funzione di incontro e confronto fra studiosi di ambiti diversi svolta dal Centro Europeo di studi sulla Civiltà Cavalleresca e ha altresì annunciato l’intenzione di contribuire alla prosecuzione delle attività attraverso convegni, seminari, manifestazione e momenti ludico – didattici. Anche il sindaco di Certaldo Andrea Campinoti ha espresso la disponibilità del Comune a collaborare con il Centro, in quanto fra i doveri delle piccole amministrazioni si pone la ricerca di strade intelligenti atte a garantire la sinergia fra le varie agenzie di cultura del territorio. L’assessore alla cultura di San Gimignano Gemma Coppini, intervenuta in rappresentanza del Sindaco Marco Lisi, ha espresso i più vivi ringraziamenti ai professori Franco Cardini, Duccio Balestracci e Michelangelo Picone, con l’auspicio che il Centro possa trovare una sede idonea e continuare ad assolvere il proprio mandato. Infine l’assessore alla cultura del comune di Volterra Maurizio Togoli ha precisato l’importanza del legame fra cultura e produttività per la città, che vede nel convegno un momento di promozione a più livelli.
I lavori effettivi sono stati avviati dal presidente Franco Cardini, il quale ha tracciato un piccolo consuntivo, aperto a un grande preventivo, dell’attività svolta in questa fase di ricerca di un vero e proprio consolidamento. Il livello e la qualità del pubblico sono indubbiamente importanti, ma per ora i convegni costituiscono l’attività principale del Centro, pertanto occorre un ulteriore impegno continuativo nel reperimento di una sede, di un logo e di una dotazione libraria. Si ritiene inoltre necessario un coinvolgimento dei docenti delle scuole secondarie di primo grado, per i quali l’aggiornamento si pone come obbligo morale nel contributo alla crescita culturale, e quindi sociale, delle nuove generazioni. Nello sforzo di creare un tessuto colloidale comune, il Centro dovrà inoltre promuovere più ampi collegamenti, anche al di fuori della Toscana, con i cultori della medievistica, spesso penalizzati dalla mancanza di idonei canali di comunicazione.
José Enrique Ruiz – Doménec ha quindi proseguito l’apertura del convegno con la definizione del proprio concetto di cavalleria, basata su due assunti fondamentali: lo sullo studio del Don Quixote, opera che contiene un’approfondita definizione dell’ideale cavalleresco e della situazione della Spagna fra Medio Evo ed Età Moderna, non molto dissimile dallo stato dell’Europa di oggi, e il magistero di Martin de Riquer, studioso dei rapporti fra Umanesimo e cavalleria. L’intervento si è concluso con la presentazione del saluto filmato di Martin de Riquer in occasione dell’intervista realizzata a Barcellona da José Enrique Ruiz – Doménec nel marzo 2008.
La sessione mattutina, presieduta da Duccio Balestracci, è stata aperta da Jaume Aurell con La cavalleria nelle città marittime della penisola iberica. A prima vista, parlare di cavalieri e città potrebbe apparire una contraddizione. Come suggerì Geoges Duby, l’ascesa della cavalleria nel Medio Evo si fondò su di un fatto tecnico, la superiorità della cavalleria nel combattimento, e su di un fatto sociale, l’associazione fra l’uso del cavallo e il prestigio sociale ad esso sotteso. Duby indicò anche un altro pilastro nel consolidamento della cavalleria, quello istituzionale, che presupponeva il restringimento del servizio militare a una minoranza, un ceto priviligiato. Con l’estendersi dell’urbanizzazione nell’Europa medievale tale ceto ristretto dovette adattarsi a nuovi contesti. Allora i privilegi sociali non coincisero più con il prestigio basato sulla partecipazione alle azioni sul campo di battaglia, bensì con la possibilità di accesso al governo della città. Alla fine del Medio Evo i teorici della cavalleria, come Alonso de Cartagena, introdussero una distinzione fra una cavalleria non armata - costituita dai membri della Chiesa e i giuristi, i quali con le armi del proprio ufficio – le orazioni e le leggi – combattevano come dei veri cavalieri, e la cavalleria armata, quella tradizionale. Con il termine “cavalleria urbana” si fa quindi riferimento al patriziato urbano impegnato nel governo della città, il quale ereditò tutto l’immaginario sorto intorno alla nobiltà tradizionale. Tale passaggio sociale si giovò tre di elementi specifici di pertinenza della cavalleria urbana: l’accesso al governo cittadino, il ricorso alla politica matrimoniale e l’acquisizione di rendite patrimoniali. Tale situazione, attestata nella penisola iberica, caratterizzò anche altre aree dell’Europa peninsulare mediterranea.
Ha concluso la mattinata la relazione di Alessandro Barbero I cavalieri e le città tra Italia nordoccidentale e Francia sudorientale. Parlare dei cavalieri nelle città dell'Italia nord-occidentale significa innanzitutto confrontarsi con una discussione storiografica che, a partire dal libro di Hagen Keller (1979) e arrivando a quello di Jean-Claude Maire Vigueur (2003), si è interrogata su chi fossero i milites cittadini. In linea teorica appare oggi abbastanza chiaro che con questo termine si intendevano inizialmente capitanei e valvassori delle clientele episcopali, ma che nel corso del XII secolo lo stile di vita militare e la qualifica cavalleresca si allargarono a tutto il ceto dirigente urbano. Resta però poca chiarezza su una questione fondamentale: quanto i milites, intesi nel senso feudale-vassallatico (o, se si preferisce, "nobiliare"), possano essere considerati il gruppo dominante nel comune delle origini. Solo indagini prosopografiche puntuali condotte in modo approfondito per tutte le città potranno permettere di rispondere a questa domanda. Dal panorama, ancora lacunoso, delle ricerche attuali emerge il carattere tutt'altro che tipico di Milano, che non può veramente essere paragonata alle altre città padane; mentre la tesi del Keller circa un comune delle origini dominato dalla vassallità episcopale si rivela inapplicabile, anche in città (come Vercelli o Novara) dove una prima e superficiale verifica aveva lasciato supporre il contrario. Estendere lo sguardo ai centri della Francia sud-occidentale, o per dir meglio dell'antico regno di Borgogna, da Aosta fino ad Arles e Marsiglia, aiuta a capire ancor meglio come i milites, signori rurali e vassalli di vescovi e principi, potessero essere al tempo stesso (ciò che non è sempre stato segnalato con chiarezza nel dibattito italiano) fortemente radicati in città, e tuttavia estranei o marginali rispetto al movimento comunale.
Durante la sessione pomeridiana, sotto la presidenza di José Enrique Ruiz – Doménec, è stata presentata la relazione Ordini militari in una città di mare: Ospitalieri e Templari nella Pisa medievale di Gabriella Garzella e Maria Luisa Ceccarelli Lemut, le quali hanno esposto i nuovi risultati dello studio iniziato da alcuni anni sul priorato dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme e sull’insediamento templare a Pisa e nella Toscana occidentale. Un primo dato significativo è la precocità della presenza di entrambe le istituzioni nella città che, alla fine dell’XI secolo, grazie alla partecipazione alla prima Crociata, vedeva esaltato il proprio ruolo centrale di nodo nelle comunicazioni mediterranee. Maggiori informazioni riguardano il priorato ospitaliero, grazie anche alla documentazione di recente reperita nella National Library di Malta, che lo presenta come uno dei più antichi e più estesi e ne sottolinea l’importanza nel panorama italiano. Pisa si qualifica come prima città centrosettentrionale con insediamenti ospitalieri, mentre per i Templari le attestazioni sono più tardi rispetto alle altre città toscane, anche se non mancarono contatti con la Toscana sotto la protezione di Bernardo di Chiaravalle. Sorprendono le dimensioni del priorato gerosolimitano di Pisa, i cui insediamenti sono attestati sulla linea terra – mare a partire dal 1173. La sede pisana si assicurò il controllo su di un’area strategica con insediamenti anche in Sardegna. Un’ulteriore estensione del priorato si verificò nei secoli XIII e XIV; nel 1312, con la soppressione dei Templari, ne incamerò i possedimenti. Ulteriori ricerche documentarie a Roma, Malta e in ambito locale dovranno riguardare questioni ancora aperte: la cronologia delle fondazioni, l’attività da esse esercitata, i loro connettivi sociali, la struttura degli ordini e i rapporti fra il centro e le fondazioni di periferia, anelli di una catena snodata su quattro regioni.
In serata i convegnisti hanno assistito presso il Chiostro di Palazzo Minucci Solaini alla rappresentazione Si racconta di Orlando, interpretata dal Laboratorio teatrale dell’Oranona per la regia di Carlo Romiti. Al termine dello spettacolo Duccio Balestracci, Alessandro Barbero e Franco Cardini hanno presentato, alla presenza dell’autore, il libro Il Gran Capitano. Ritratto di un’epoca di José Enrique Ruiz-Doménec (Torino, Einaudi).
Michelangelo Picone ha dato inizio ai lavori di venerdì 20 giugno presentando L’investitura cavalleresca di Cola di Rienzo di Anna Modigliani. Cola di Rienzo, personaggio di umili origini e appassionato di storia romana e antichità, aveva ottenuto incarichi come ambasciatore del papa. Nel 1347, sull’Aventino, avvenne un vero e proprio colpo di stato. Cola salì sul colle, dove il popolo, avallato dal pontefice, gli affidò molte prerogative. La successiva nomina a tribuno dovette rappresentare per lui un passaggio verso l’assunzione di un potere personale. Il 1° agosto 1347 Cola di Rienzo, tribuno e di fatto signore di Roma da poco più di due mesi, organizzò una solenne cerimonia per la propria investitura a cavaliere, che avvenne in S. Giovanni in Laterano e durante la quale egli si bagnò nella conca dove si diceva che l’imperatore Costantino avesse ricevuto il battesimo. Ma il significato di tale cerimonia, di cui è principale testimonianza la Cronica dell’Anonimo romano, travalicò i confini dell’investitura cavalleresca per caricarsi di valori e proposte di carattere universalistico, in quanto l’atto apparve come condizione necessaria in vista dell’acclamazione imperiale, che si sarebbe basata sul raggiungimento dell’onore della milizia. Di conseguenza Cola perse gradualmente il consenso, e gli eventi precipitarono fino alla sua morte nel 1354.
Barbara Frale ha poi proseguito con La crisi della cavalleria e l’ascesa della borghesia cittadina nell’ordine dei Templari. Sull’ordine templare è stato scritto molto in relazione alle origini e al suo epilogo, ma il periodo di mezzo, di circa centottanta anni, è stato scarsamente indagato. Le regole sopravvivono in tre redazioni ripetitive e con ampliamenti anonimi e privi di datazione. I Templari vengono costituiti nel 1129 come un ordine religioso e militare preposto alla difesa della Terrasanta: secondo le esigenze militari del tempo, che si basano sul predominio della cavalleria, costituiscono un ordine di cavalieri. Nel corso del tempo cambia la società dell'Occidente e la sua economia si evolve: la rendita fondiaria vede diminuire il proprio valore, mentre la nuova ricchezza nasce dai traffici finanziari e dalle dinamiche che si svolgono nelle città. L'ordine dei Templari si adatta, acquisisce un volto più "cittadino", economico e politico. Il rango dei sergenti, che agli esordi non avevano nemmeno un vero e proprio status da Templari, cresce di numero e d'importanza rispetto a quello dei cavalieri. Nell’ordine sono accolti in numero sempre maggiore notai, banchieri e figli di ricchi mercanti: abili e preparati, acquistano presto posizioni di potere. Questo porta l'ordine ad essere sempre meno "cavalleresco" e sempre più "borghese" e quindi molto più accessibile, soprattutto dopo il fallimento delle Crociate, quando gli sforzi più che alla guerra vera e propria si concentreranno sull’accumulo di ricchezze atte a sostenere una possibile riconquista. Ciò significherà un netto cambiamento della sua mentalità interna, con evidenti ripercussioni anche sullo stesso scioglimento dell'ordine.
Maria Giuseppina Muzzarelli ha quindi esposto la relazione Cavalleria e leggi suntuarie. Le norme suntuarie, emanate ininterrottamente nelle città sia italiane sia europee dal XIII secolo fino alla Rivoluzione francese, hanno disciplinato e dosato vesti ed ornamenti tenendo conto di molti e diversi elementi: politici, morali, economici e sociali. Dallo studio ordinato e sistematico di queste norme si possono ricavare preziose informazioni su oggetti e usi, ma anche sui progetti politici perseguiti e sulle diverse posizioni sociali. In questo genere di fonti, a lungo trascurate dalla storiografia, si parla non di rado di cavalieri per concedere loro e/o alle loro mogli e figlie vesti ed ornamenti negati ad altre categorie o diversamente dosati. L’indagine sulla produzione suntuaria bolognese nel periodo che va dal XIII alla fine del XVI ci suggerisce l’idea di una classe privilegiata, la cui magnificenza trovava manifestazioni negli abiti delle donne appartenenti a famiglie cavalleresche, nei cortei funebri e nei colori esibiti in occasione di giostre e tornei.
La sessione mattutina si è conclusa con l’intervento di Paolo Grillo Cavalieri e fanti negli eserciti comunali italiani. La battaglia di Legnano del 1176 vede l’affermazione del ruolo della fanteria, gruppo che prepara la strada all’assalto dei cavalieri. L’episodio sancisce quindi l’importanza della collaborazione fra i due gruppi. Fra gli uni e gli altri esiste una differenza di status, ma non una gerarchia: vengono pagati dalle autorità con soldo diverso, tuttavia l’equilibrio è assicurato dalla possibilità di accesso ai ranghi dei cavalieri su base censitaria. Nel Duecento tale meccanismo si inceppa per l’attacco dei populares, che non vogliono condividere i privilegi dei milites. Con Federico II si assiste a una proiezione dello sforzo bellico, con un costo tremendo anche per le città italiane e una conseguente crisi nella gestione della guerra. Sempre nel XIII secolo il ruolo del servizio a cavallo diventa un obbligo (cavallata) e cessa di essere un privilegio, così molti cercano di sfuggire, per esempio mandando un altro a combattere al proprio posto. Ciò accelera l’affermazione del mercenariato, attivo già nel XII secolo, e che, fra Tre e Quattrocento, si qualifica come logica evoluzione dei processi di mutamento degli eserciti comunali.
Il pomeriggio, presieduto da Franco Cardini, ha avuto inizio con Gli “Scudi degli Heroi”: imprese e historiae come rappresentazione del cavaliere di Alessandro Della Latta. Fin dall’antichità la figura del cavaliere, del condottiero, del capitano, del principe, oltre che da una multiforme tradizione letteraria, è tramandata da un complesso sistema di segni che si esprimeva in differenti modalità di presentazione e rappresentazione: tra di essi le armi giocavano un ovvio ruolo di primaria importanza. Dal Medioevo alla prima Età Moderna, i diversi cerimoniali cortesi (tornei, feste, trionfi, cortei nuziali) erano la manifestazione emblematica più eclatante della cultura cavalleresca, ove uno dei ‘luoghi’ prediletti di rappresentazione simbolica era lo scudo. Stemmi, devise e imprese ne erano il consueto e canonico apparato iconico, cui si affiancherà all’inizio del Cinquecento un sistema narrativo ben più articolato, in cui il soggetto raffigurato era sovente connesso ai temi della rappresentazione effimera. In tali contesti lo scudo assume una dimensione prettamente enunciativa, in quanto in esso convergono le immagini e la parola, la narrazione e il simbolo. Nei molti e recenti studi dedicati all’ekphrasis nell’epica, non si è appieno valutata la possibilità che le descrizioni di scudi potessero fornire un modello iconico per le arti. Lo scudo dell’epica non è un prodigio del tutto irrealizzabile. Oltre ai complessi, e irriproducibili, schemi narrativi messi in atto per gli scudi di Achille ed Enea, nell’epica sono infatti descritti alcuni scudi “minori” che, carichi di un’evidente valenza simbolica e genealogica, recano soggetti equiparabili alle imprese e risultano modelli iconici possibili. La ripresa della classicità negli scudi realizzati fra Quattro e Cinquecento, con la predominanza della forma del clipeo, è dunque da ascrivere, più che ai modelli delle collezioni di armi antiche presenti negli ambienti cortesi e al fervore archeologico allora in voga, all’attrazione esercitata dalle descrizioni letterarie degli scudi degli «Scudi degli Heroi».
Isabella Gagliardi ha proseguito con Cavalieri in città: liturgia e rovesciamenti simbolici. Una pista interpretativa di stampo storico – critico consente di seguire la direzione spirituale del rapporto fra ecclesia e cavalleria. Nel Medio Evo la cerimonia della vestizione cavalleresca si fondava su tre "icone" antitetiche: quella liturgica ufficiale; quella trasformata attraverso un rovesciamento assoluto della gestualità e degli effetti per i motivi spirituali della mortificazione di sé nell'ottica dell'imitatio Christi ed infine quella carnevalescamente (M. Bachtin) rovesciata che è attestata dalla letteratura precipua. L’evento si qualificava come un rito di passaggio sancito dalla benedizione: se per il laico essa discendeva dal battesimo, quella dispensata dal sacerdote era del tutto particolare. Tale momento, precedente la lettura del Vangelo, era accompagnato da formule liturgiche pronunciate prima della vera e propria ordinazione. Nella benedizione delle armi solo la spada assumeva valore probante. La vestizione, che comprendeva gesti simbolici ed esorcismi, sanciva il passaggio dal vecchio al nuovo stato, suffragato dalla consegna del vessillo benedetto: il miles, attraverso il sacerdos, si sottoponeva a Dio. Le pratiche descritte esercitarono una notevole influenza sulla predicazione crociata.
Ha concluso la seconda giornata di convegno Gesti e codici cavallereschi fra cristiani e musulmani nelle capitolazioni di città del regno crociato di Gerusalemme (secc. XII-XIII) di Giuseppe Ligato. Le consuetudini belliche nel contesto delle capitolazioni di città nell’Oriente latino non si distaccarono, sotto vari aspetti, da quelle riscontrate nell’Occidente sin dall’Antichità, come anche nel primo Islam; e già durante la prima crociata, una mentalità cavalleresca che entrambi i contendenti scoprirono di condividere favorì lo sviluppo di una “diplomazia della resa”, attenta ai valori della cavalleria nel rispetto del coraggio dell’avversario e nella correttezza verso le popolazioni non combattenti. Se non di rado prevaleva invece il furor, d’altra parte la differenza religiosa appare meno influente del prevedibile come causa degli episodi di conquista violenta; tanto che nei coevi assedi europei gli odi ancestrali, le faide, i tradimenti e la fellonia, fattori necessariamente più comuni rispetto alle guerre fra cristiani e musulmani, motivavano spesso uno jus belli molto più severo rispetto al mondo crociato. In alcuni casi la clemenza del Saladino nei confronti di donne e bambini fu addirittura superiore rispetto agli atti di clemenza da parte dei capi cristiani, anche se, in effetti, tanta generosità sembra ascrivibile alla fretta di impadronirsi delle città conquistate prima che i nemici potessero riorganizzarsi. Le similitudini nel trattamento dei prigionieri da parte di cristiani e musulmani possono essere motivate con l’assenza dei contrasti intestini che sconvolgevano l’Occidente, per cui Oltremare si avvertiva l’opportunità di evitare le sfrenatezze più efferate.
Ha presieduto la giornata conclusiva Mario Ascheri, che ha introdotto la relazione di Almudena Blasco Vallés La cavalleria spagnola tra Granada e Siviglia nel Quattrocento. Nelle descrizioni umanistiche della figura del cavaliere emerge il sentimento cavalleresco che animava la lotta contro i musulmani. Tale assunto si ricava dall’esame di svariate fonti: le descrizioni di comportamenti, usi e costumi cavallereschi di una società di frontiera, quella della Corona di Castiglia nel XV secolo, nonché i resoconti dei viaggi dei cavalieri cristiani da Siviglia a Granada per partecipare a giostre e tornei. Altre notizie importanti si evincono dai resoconti coevi, a partire dalle fonti cronachistiche, come quella di El Halconero, del Romancero nelle redazioni primitive, da alcuni frammenti di novelle castigliane e dall’iconografia relativa al mondo cavalleresco, come i dipinti del Salone Reale all’ Alhambra di Granada.
Infine Francesco Paolo Tocco ha esposto La dimensione cavalleresca nell’identità di Messina medievale. La dimensione cavalleresca ha avuto un forte impatto sull’evoluzione identitaria di Messina medievale; il concetto di militia, di importazione normanna e del tutto estraneo all’ambiente messinese è giunto alla rappresentazione in senso cavalleresco nella Messina di età moderna. Un ruolo centrale in nel percorso d’indagine su tale evoluzione è svolto dall’Historia Sicula di Bartolomeo di Neocastro, complesso e sinora poco considerato manifesto dell’ideologia urbana peloritana alla fine del XIII secolo, età di profonda trasformazione per tutta la società siciliana. L’obiettivo finale dell’analisi consiste nel valutare l’evoluzione delle forme della preminenza sociale e politica in un contesto estremamente sincretico, caratterizzato da un consistente sostrato socio-culturale greco, da altrettanto significativi apporti provenienti dall’Italia comunale, e legato in maniera peculiare al mare e ai commerci.
Al termine del convegno Duccio Balestracci ha tirato le somme dei lavori svolti durante le tre giornate, che hanno stimolato una riflessione sugli elementi fondamentali insiti nel binomio cavalieri – città. Senza dubbio è stato messo in discussione il ruolo dei milites come elemento primigenio nelle formazione dei Comuni medievali. La situazione variava da una città all’altra e non bisogna trascurare i fenomeni di mobilità sociale allora in atto. Occorre quindi tenere presente la distinzione città – Comune, il quale non è elemento sovrapersonale, senza trascurare anche il ruolo della fanteria. In tale percorso non chiaro e lineare mirante alla ricostruzione dei rapporti fra cavalieri e città bisogna esercitare cautela nella comparazione fra realtà storiche, politiche e sociali molto diverse. Resta indubbio che nel tempo lo statuto della cavalleria ha esercitato un ruolo fondamentale come elemento di potere, perciò i cavalieri erano annoverati fra le figure più eminenti in una società suggellata da comportamenti e segni esteriori e contraddistinta dagli aspetti subliminali del potere, quali le feste e le giostre di piazza. Fra Quattro e Cinquecento la cavalleria, latrice di un codice di comportamento, diventa specchio della classicità come veicolo di messaggi politici molto precisi e condivisi, che inducono a riconsiderare i suoi aspetti materiali.
Michelangelo Picone ha quindi presentato gli Atti del II Convegno La letteratura cavalleresca dalle Chansons de geste alla Gerusalemme liberata (Certaldo Alto, 21-23 giugno 2007), a c. di M. Picone, Pisa, Pacini e Associazione Polis (Certaldo), 2008.


Elena Necchi

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