Mara Abruzzese, Iscrizioni monumentali di apparato negli edifici di culto a Roma dall'età costantiniana al pontificato di Pelagio II (579-590)* La tipologia architettonica della basilica, sviluppatasi a Roma a partire dai primi decenni del IV secolo, in seguito alla cristianizzazione della città voluta dall'evergetismo della famiglia imperiale, si prestava adeguatamente al compito di ospitare, in un unico grande spazio, i fedeli che accorrevano per svolgere i riti liturgici o venerare, nelle basiliche martiriali del suburbium, il luogo di sepoltura del martire. Questi edifici erano, in genere, costituiti da una grande navata centrale, affiancata da due navatelle e conclusa da una struttura absidata che fungeva da sfondo per il presbiterio o l'altare maggiore. Le prime testimonianze riguardano le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Pietro in Vaticano; il loro arredo liturgico, ampiamente descritto dal Liber Pontificalis[1], e la disposizione delle rispettive aree presbiteriali si identificano con le camerae fulgentes, luoghi focali dell'edificio di culto, in cui sono disposti gli altari, i cibori, le cattedre, sostituendo le absidi dell'aula regia, fulcro delle antiche dimore imperiali. La decorazione primitiva di queste grandi absidi, simboli del potere e del prestigio laico riproposto in ambito religioso, era probabilmente costituita da uno sfondo aureo, realizzato in tessuto o composto da tessere musive o lamine d'oro, quindi aniconico, corrispondente alla camera crispans a cui Paolino di Nola accenna nella descrizione della volta della basilica di San Felice a Cimitile[2]. Nello spazio architettonico della basilica, l'abside costituiva il fulcro e contemporaneamente, la parte conclusiva del percorso che il fedele intraprendeva fino all'altare. Pertanto, alla decorazione aurea aniconica che sfruttava la luminosità simbolica delle tessere dorate o di tessuti impreziositi da filari d'oro per creare un effetto di forte impatto visivo, si sostituiscono i primi cicli musivi che, ispirandosi ai concili terreni che si svolgevano proprio nell'area absidale, riproducevano il collegium apostolorum disposto intorno alla figura del Cristo. Fin dalla prima metà del IV secolo, accanto a questi veri e propri manifesti ideologico-religiosi si disposero le iscrizioni di apparato che assunsero, in primo luogo, il compito di "informare" il fruitore sulle vicende dell'edificio di culto e sul ruolo del committente. La scrittura esposta, utilizzata come strumento di comunicazione nei luoghi d'incontro quali gli edifici pubblici, le piazze, le terme, si era diffusa soprattutto nella società romana del I-III secolo che, dato l'alto processo di alfabetizzazione che aveva investito i vari livelli sociali, era pronta a recepire i messaggi, in genere propagandistici, contenuti nelle iscrizioni. La città romana riservava, inoltre, ampi spazi funzionali alla trasmissione scritta, sia in luoghi all'aperto, in cui le iscrizioni erano collocate lungo le vie principali o sui monumenti più importanti, in modo tale da essere lette da un pubblico ampio e vario, sia in spazi chiusi, quali gli edifici pubblici o i centri di culto, indirizzate a lettori direttamente interessati. La nascita della comunità cristiana e la sua diffusione all'interno della società romana imposero un processo di trasformazione che investì la città e, di conseguenza, quelli che erano i mezzi peculiari di comunicazione scritta: le epigrafi di apparato. Il processo di cristianizzazione che si accelerò a partire dalla Pace della Chiesa del 313, implicò la costruzione di grandi edifici di culto che, al loro interno, prevedevano una particolare disposizione per gli uomini e le donne, attestata da un'iscrizione funeraria, risalente al IV secolo, originariamente collocata nella basilica di San Pietro in Vaticano. Il testo fa riferimento alla pars virorum che prendeva posto nella parte sinistra della navata, entrando, mentre alle donne era riservata la parte destra. All'interno di tali edifici furono disposte le iscrizioni rivolte, pertanto, direttamente ad un pubblico più ristretto, capace di recepirne il significato religioso-celebrativo. In tal modo, si venne a creare un forte legame tra l'epigrafe e la struttura architettonica, rispondente ad una necessità di ordine spirituale. In un passo dell'Epistula XXXII, Paolino di Nola identifica la costruzione di un santuario in un vero e proprio atto di fede, individuando nei "tituli votivi" i messaggi istruttivi per i lettori[3]. La basilica diventa espressione della Gerusalemme celeste, della Domus Dei, in cui il fedele percorre un cammino spirituale illustrato attraverso le immagini e le iscrizioni che diventano "pagina in pariete reserata", definizione utilizzata da Paolino di Périgueux per indicare un titulus che si trovava a S. Martino di Tours. L'epigrafe assume così il ruolo di smaterializzare l'edificio trasformandolo in un "libro di pietra" in cui la Parola di Dio è riportata per mezzo di sentenze morali, citazioni bibliche e versi liturgici[4]. Le iscrizioni di apparato si possono distinguere in tre differenti tipi. Il primo riguarda la fondazione, la consacrazione e la ristrutturazione dell'edificio di culto, indicate dalle forme verbali coepit, fecit/perfecit, fundata/fundavit; il secondo la composizione architettonica o la decorazione del monumento attraverso i termini decoravit e adornavit e il terzo, di contenuto spirituale, costituito da citazioni tratte dalle Sacre Scritture. Nei primi decenni del IV secolo fu fondata dall'imperatore Costantino (313-337) la basilica di San Pietro in Vaticano, con lo scopo di monumentalizzare il luogo di sepoltura dell'apostolo. L'evergetismo imperiale si espresse attraverso tre iscrizioni dedicatorie, collocate originariamente due nell'abside e una sull'arco trionfale. La prima di queste epigrafi, il cui testo è giunto a noi tramite la tradizione manoscritta, disposta sull'arco absidale, si riferiva, probabilmente, alla vittoria di Costantino sui Sarmati, provenienti dai Balcani, respinti nel 324. Il testo si presuppone esclusivamente informativo sulle imprese vittoriosamente concluse dall'imperatore. Il catino absidale era ornato da un'altra epigrafe, probabilmente composta all'epoca di Costanzo II (337-361), inneggiante alle virtù del pater (Costantino) e del filius. La supposta disposizione dell'iscrizione al di sotto del mosaico, raffigurante la Tradito legis, che decorava l'abside, limitava il grado di leggibilità del testo, privilegiando la visione dell'opera musiva. L'arco trionfale era occupato da un'iscrizione dedicatoria in cui era esplicitata la committenza dell'imperatore Costantino, supportata dalla presunta decorazione musiva raffigurante l'evergete nell'atto di porgere il modellino del tempio da lui fondato al Cristo e a San Pietro. L'epigrafe, disposta in uno dei luoghi più significativi dell'edificio di culto, simbolicamente definito "la porta del cielo" nel cammino percorso dal fedele, ha ancora un carattere prevalentemente informativo. All'evergetismo costantiniano si deve anche la costruzione della basilica di S. Agnese fuori le mura, la cui committente, Costantina, provvide alla realizzazione di un'iscrizione dedicatoria, incisa su una lastra marmorea e, pertanto, caratterizzata da lettere di modulo grande, facilmente visibili. L'epigrafe presentava anche l'espediente dell'acrostico, mediante il quale il nome della dedicante e il destinatario dell'opera, Dio, erano sostituiti dalle prime lettere di ciascun verso, probabilmente più grandi rispetto alle altre. La collocazione dell'iscrizione rimane tuttora incerta, date le due diverse tradizioni che la dispongono rispettivamente lungo l'arco trionfale o nell'abside[5]. In entrambi i casi, la leggibilità del testo era compromessa dal carattere criptico dei topoi celebrativi ivi sviluppati; in una prima parte è reso noto il nome della dedicante e la sua conversione, nella parte centrale sono indicate le risorse impiegate per edificare la basilica, mentre l'ultima parte è rivolta alla martire Agnese. L'epigrafe dimostra, quindi, una maggiore propensione ad esaltare l'evergetismo imperiale e le imprese monumentali condotti dai committenti, tralasciando riferimenti diretti alla nuova religione. A differenza delle iscrizioni costantiniane di San Pietro in Vaticano, l'epigrafe dedicatoria, attualmente ricostruita sul limite superiore dell'arco trionfale della basilica di San Paolo fuori le mura e risalente all'età dell'imperatore Onorio (395-423), mostrava i nomi dei committenti e dell'apostolo Paolo, doctor mundi, a cui era dedicato l'edificio. Siamo di fronte ancora ad un testo strettamente connesso all'evergetismo imperiale, indirizzato a sottolineare soprattutto l'impresa costruttiva, alludendo in maniera blanda alla nuova fede con la definizione dell'apostolo quale "Dottore delle genti". Agli ultimi decenni del IV secolo risale l'iscrizione dedicatoria che era probabilmente disposta nel catino absidale della basilica costantiniana di San Lorenzo fuori le mura. Il testo ripropone l'accenno al committente, il presbitero Leopardo, descrivendo i lavori di restauro condotti dall'ecclesiastico. La novità è presente nella descrizione della decorazione musiva che originariamente ornava l'abside, costituita dalla mano divina colta nell'atto di offrire le corone del martirio (praemia). Probabilmente, questo tema era per lo più realizzato nella zona superiore della calotta absidale, simbolicamente corrispondente al Regno Celeste. L'intensificazione del processo di cristianizzazione della città di Roma, condotto soprattutto durante il V secolo dai pontefici Innocenzo I (401-417), Celestino I (422-432) e Sisto III (432-440), modificò il ruolo dell'epigrafe, all'interno dell'edificio di culto. Al compito puramente informativo delle iscrizioni di apparato risalenti al IV secolo, si sostituiscono significati simbolico-allegorici resi espliciti già nell'utilizzo della tecnica musiva con cui le epigrafi sono realizzate. La trasmissione di un messaggio dedicatorio e, soprattutto, di fede diventava il mezzo necessario per legittimare ed affermare una nuova realtà religiosa. La scrittura si allontana dal ruolo puramente didascalico, acquisendo una propria autonomia e, in alcuni casi, utilizzando la decorazione musiva quale "spiegazione" per gli incolti del messaggio divino. Di conseguenza, anche l'apparato figurativo assume degli schemi fissi, ripetuti con sistematicità, in modo tale da garantire una perfetta comprensione da parte dei fedeli. La figura del Cristo diventa il fulcro della rappresentazione musiva, improntata ad esaltare il ruolo di Dio, della sua Parola e della sua Chiesa. Lo schema iconografico più diffuso è quello della Maiestas Domini, in cui il Cristo compare al centro del collegio apostolico, nel momento particolare della parusia. Esemplare è il mosaico che adorna il catino absidale della basilica di S. Pudenziana, ritenuto dal Matthiae espressione della scena teofanica del giudizio universale, collocato al centro della rappresentazione simbolica della Gerusalemme celeste. Nel mosaico compare per la prima volta la raffigurazione del codex aperto, tenuto in mano da San Paolo, sulle cui pagine bianche originariamente spiccava, presumibilmente in caratteri neri, l'iscrizione dedicatoria che attestava la fondazione della basilica da parte dei presbiteri Ilicio e Leopardo citati, insieme a Massimo, anche nell'epigrafe che, un tempo correva lungo la fascia sottostante il catino absidale. La presenza del libro sacro compare nell'arte paleocristiana, sia cimiteriale che monumentale, a partire dal IV secolo, assumendo particolari significati dottrinali e diventando testimone della Sacra Scrittura. Delle due differenti iconografie sviluppatesi nella concezione cristiana, una raffigurante un testo aperto, di modeste dimensioni, in genere sorretto dal Cristo, dai santi o dagli evangelisti e recante una scritta non leggibile, l'altra costituita da un libro tenuto diritto, caratterizzato da ampie pagine bianche su cui era disposta l'iscrizione, in caratteri capitali, perfettamente visibile. Quest'ultima iconografia è riproposta ben due volte nel mosaico della basilica di S. Pudenziana in cui, oltre al codex sorretto, originariamente, dall'apostolo Paolo, è visibile un altro testo, questa volta tenuto in mano dal Cristo, sulle cui pagine bianche compare l'iscrizione "Dominus conser/vator ecclesiae Pudenti/anae". In stretta relazione con la rappresentazione della parusia, l'epigrafe indica il Cristo quale garante (conservator) della comunità cristiana appartenente al titulus Pudentis. Il codex, originariamente contenitore della Parola di Dio, diventa qui portatore di un messaggio privato, rivolto esclusivamente a una cerchia ristretta di fedeli. A livello grafico, l'iscrizione conserva un alto grado di leggibilità, garantito dal contrasto tra le pagine bianche del libro e le grandi lettere capitali nere. L'epigrafe che, originariamente, era collocata nel Sacello di San Pietro, presentava ancora un carattere informativo, dichiarando i committenti dell'opera, il presbitero Massimo e i suoi familiari. Il tema iconografico del mosaico, ora perduto, che ornava il catino absidale del sacello, raffigurante l'apostolo Pietro seduto tra due agnelli e, in basso, il Cristo circondato da due figure maschili, era connesso alla dedicazione dell'oratorio. Al V secolo risale l'iscrizione dedicatoria che, ancor oggi, è collocata lungo la controfacciata della basilica di S. Sabina. L'epigrafe, situata all'interno di uno specchio grafico esteso (13m x 3m), è perfettamente leggibile grazie alle grandi dimensioni delle lettere e all'evidente contrasto cromatico tra il blu dello sfondo e il colore dorato delle lettere capitali. Il testo è di carattere informativo sull'intervento costruttivo dell'edificio da parte del presbitero illirico Pietro, appartiene storicamente al pontificato di Celestino (422-432). L'iscrizione è inquadrata ai due lati dalle figure femminili rappresentanti simbolicamente le due Ecclesiae, sovrastate rispettivamente dalle immagini di San Pietro e San Paolo. Le due figure femminili sorreggono in mano un codex, che iconograficamente corrisponde al libro di dimensioni ridotte, contrassegnato da alcune tessere scure che rappresentano il corsivo occidentale e la scrittura ebraica. In tal modo, le due scritte, illeggibili, rassicurano il lettore dell'esistenza, comunque, di una scrittura. Al di sotto sono disposte le iscrizioni didascaliche che commentano le due Ecclesiae; anch'esse presentano un'ordinata impaginazione e sono costituite da caratteri capitali di dimensioni grandi tali da permettere una perfetta leggibilità. Le epigrafi disposte all'interno di un edificio di culto, rivolte, pertanto, ad un pubblico ristretto, erano costituite talvolta da versetti biblici o sentenze morali che contribuivano a smaterializzare il monumento sacro e a connotarlo da un punto di vista spirituale. L'iscrizione originariamente collocata nell'abside della cappella di S. Elena, retrostante la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, era costituita, nella prima parte, dai versetti 11 e 12 del salmo CXLVIII, inneggianti il Signore, privi della frase: "iuvenes et virgines, senes cum iunioribus", immediatamente seguiti dai nomi dei committenti imperiali, Valentiniano III, Galla Placidia e Onoria, in modo tale da farli coincidere con il testo sacro. Il tal caso, il significato politico dell'epigrafe, protesa all'esaltazione degli evergeti, è supportato dal testo biblico in cui il fedele si riconosceva. Inoltre la disposizione dell'iscrizione nel catino absidale, punto focale della cappella, facilitava la lettura e permetteva l'autocelebrazione dei committenti. Alla prima metà del V secolo appartiene l'iscrizione dedicatoria del pontefice Sisto III (432-440), attualmente collocata sull'arco trionfale della basilica di Santa Maria Maggiore. Il testo, che si sviluppa all'interno di uno spazio ristretto, conserva comunque una discreta leggibilità dovuta al colore bianco dei caratteri, che spiccano sul fondo nero, e alla posizione centrale sulla chiave dell'arco. L'epigrafe è disposta al di sotto della rappresentazione del Trono di Dio, su cui poggiano una corona ed una croce, inscritto all'interno di un clipeo e circondato dalle immagini apocalittiche dei quattro tetramorfi. La superficie restante dell'arco trionfale è completamente occupata dalla rappresentazione dell'Infantia Salvatoris, tema iconografico nuovo a Roma, proposto in seguito all'affermazione del dogma della maternità divina della Vergine nel concilio di Efeso del 431. I due peducci dell'arco sono riservati alla rappresentazione simbolica delle due città, commentate dalle rispettive iscrizioni didascaliche (ILCV 975 c-d). A questo concetto è rivolta soprattutto l'iscrizione che, un tempo, era disposta lungo la facciata interna. Il testo, che indicava l'intitolazione della basilica a Maria, la cui maternità divina è testimoniata dal sacrificio dei martiri, è congeniale al tema iconografico mariano sviluppato sull'arco trionfale. Probabilmente, l'iscrizione era anch'essa circondata da una raffigurazione musiva di cui, però, non è nota l'iconografia. Il testo si sviluppava, presumibilmente, lungo l'intera parete, in analogia all'iscrizione della basilica di S. Sabina, pertanto si presuppone che avesse una veste grafica tale da permettere una buona visibilità e leggibilità. Anche la basilica di San Pietro in Vincoli la facciata interna era, originariamente, occupata dall'iscrizione dedicatoria nel cui testo si accenna alla nuova dedicazione dell'edificio agli apostoli Pietro e Paolo, costruito grazie all'intervento finanziario della famiglia imperiale e del presbitero Filippo. Il carattere informativo dell'iscrizione giustificherebbe la sua collocazione sulla facciata interna, in modo tale da essere letta dal fedele prima di lasciare l'edificio di culto. All'interno della basilica era disposta anche un'altra epigrafe, che evidenziava l'intervento ricostruttivo di Eudossia dovuto allo scioglimento di un voto. Al pontificato di Sisto III (432-440) risale l'iscrizione che tuttora si trova sull'architrave che separa i due ordini di colonne che circondano il fonte battesimale del Battistero Lateranense. La sua particolare disposizione ha permesso una completa integrazione tra il testo e lo spazio architettonico, in quanto ogni distico è perfettamente racchiuso all'interno di ciascun epistilio. L'iscrizione descrive gli effetti sacri e i benefici del Battesimo, probabilmente "illustrati" nelle scene pastorali che, un tempo, ornavano l'absidiola sinistra dell'atrio. L'opera musiva, conosciuta solo attraverso due disegni del Ciacconio[6], raffigurava due pastori circondati da due coppie di animali. Un simile tema bucolico è rappresentato negli estradossi della cupola del Battistero di S. Giovanni in Fonte, a Napoli, e, probabilmente, nell'opera musiva che decorava una delle nicchie del Battistero della cattedrale di Ravenna. Durante il pontificato di Leone I (440-461) fu rinnovata la facciata della basilica di San Pietro in Vaticano in seguito allo scioglimento di un voto da parte di Marinianus e di sua moglie Anastasia, come accenna l'iscrizione in situ fino alla prima metà del XIII secolo. La parete fu decorata con un mosaico raffigurante una scena apocalittica, tema iconografico che compare anche sull'arco trionfale della basilica di San Paolo fuori le mura, il cui restauro è ugualmente riconducibile a Leone I. Le iscrizioni di San Paolo fuori le mura hanno ormai assunto un andamento subalterno rispetto all'opera musiva, fungendo quasi da elementi divisori della decorazione. Se l'epigrafe dedicatoria di Galla Placidia mantiene una certa visibilità grazie al contrasto cromatico tra le lettere bianche e il fondo azzurro, le due iscrizioni che commentano le figure di San Pietro e San Paolo sono difficilmente leggibili dal piano della basilica. Il testo riferito a Paolo presenta una citazione di valore dottrinale, indicando l'apostolo e il popolo dei fedeli con una riadattamento della locuzione biblica "vas electionis" con cui il santo è definito in un passo degli Atti degli Apostoli (IX,15), assumendo un significato più criptico per il vulgus e contribuendo a trasformare l'edificio di culto in un "contenitore" di testi sacri. Durante il pontificato di Ilaro (461-468), furono edificati e decorati tre oratori, annessi al Battistero Lateranense. L'oratorio di San Giovanni Battista presentava, nell'abside retrostante l'altare, l'iscrizione dedicatoria del pontefice, costituita solo dal nome del committente e da quello del santo. L'epigrafe collocata sull'ingresso dell'oratorio, rivolgendosi alla plebs dei, riprende lo stesso stile conciso dell'iscrizione sistina dell'arco trionfale di Santa Maria Maggiore. L'iscrizione che tuttora si trova sull'architrave della porta d'ingresso dell'Oratorio della Santa Croce riprende un passo biblico, il versetto 8 del salmo XXV, riferendosi direttamente alla sontuosa decorazione interna. Il nome del committente è, invece, ricordato nell'epigrafe che correva lungo il peristilio del triportico che precedeva l'edificio. Nel testo è commentato l'intervento ricostruttivo del pontefice e la sua volontà di offrire al Signore l'opera appena compiuta. Alla seconda metà del V secolo risale la basilica di S. Agata dei Goti, la cui costruzione fu commissionata dal goto Ricimero. L'iscrizione votiva che informava il fedele sull'intervento costruttivo dell'edificio era originariamente disposta nel catino absidale, presumibilmente al di sotto dell'opera musiva raffigurante il Cristo al centro del collegio apostolico. Il testo risultava, probabilmente, poco visibile poiché situato in posizione subalterna rispetto al mosaico. A partire dal VI secolo, quel livello di leggibilità alterato individuato nelle epigrafi di S. Agata dei Goti e di San Paolo fuori le mura, diventa la caratteristica peculiare dell'iscrizione collocata nella basilica dei Ss. Cosma e Damiano. La disposizione stessa del testo lungo la fascia bassa del catino absidale rende difficile la lettura al fedele, riservandone la fruizione esclusivamente al clero. L'iscrizione assume inoltre un carattere simbolico-dottrinale, non più informativo, accentuando la sua valenza autoritativa. Nel mosaico della basilica la figura del Cristo, intorno alla quale ruota tutta la rappresentazione, il cui senso risiede nell'epifania divina, tiene in mano un rotolo chiuso, mentre il testo dell'iscrizione dedicatoria di Felice IV (526-530) presenta una struttura più complessa, riportando riflessioni di carattere estetico sulla decorazione musiva incentrate sul valore mistico della luce. Il cristianesimo aveva sviluppato, nel corso dei primi secoli, una propria concezione del "libro sacro", basata sull'elaborazione del testo quale portatore autonomo di un messaggio religioso. All'iconografia del libro aperto, diffusasi nel IV e nel V secolo, caratterizzato da scritte fruibili per il lettore, si sostituisce nel corso del VI secolo la raffigurazione di un testo chiuso, impreziosito da gemme, destinato esclusivamente alla venerazione e non alla lettura da parte dei fedeli. Si registra, inoltre, un cambiamento nel rapporto tra immagine e scrittura dovuto ad una progressiva diminuzione del fenomeno di alfabetizzazione. Le iscrizioni, che furono gradualmente relegate nella zona absidale riservata al clero, persero così la funzione di "explicare", essendo comprensibili solo a quelle classi sociali, laiche ed ecclesiastiche, che si servivano ancora della scrittura quale mezzo di comunicazione. La difficoltà di trasmettere messaggi dal contenuto dottrinale ad un vulgus che, per le mutate condizioni storico-sociali e politiche, non era più in grado di recepirle, portò l'apparato figurativo a svolgere un ruolo esclusivamente esplicativo. Da un passo delle Epistulae di Gregorio Magno (590-604), infatti, si apprende il proposito del pontefice di attribuire alla pictura lo scopo di spiegare visivamente le Sacre Scritture ai "nescientes litteras". Questa difficoltà di comunicazione compromette la disposizione stessa delle iscrizioni, come ad esempio nella basilica di San Lorenzo fuori le mura, in cui l'epigrafe dedicatoria del pontefice Pelagio II (574-590) era originariamente collocata sull'arco trionfale, risultando illeggibile dal piano della basilica. Pertanto, la superficie piana, di norma utilizzata per inquadrare un'epigrafe, è sostituita da particolari sistemazioni che connotano l'iscrizione soprattutto da un punto di vista simbolico e allegorico. Anche l'estradosso dell'arco è occupato da un'epigrafe, il cui testo, riferendosi al significato mistico della luce, rimanda al senso allegorico dell'iscrizione della basilica dei Ss. Cosma e Damiano. All'interno della decorazione musiva, rappresentante una Maiestas Domini, compare una delle ultime raffigurazioni del testo sacro aperto. Sulle pagine bianche dei due codices tenuti in mano da San Lorenzo e Santo Stefano sono riportati due passi desunti rispettivamente dai salmi CXI e LXII. Sia nella basilica di San Lorenzo fuori le mura che in quella dei Ss. Cosma e Damiano compaiono alcune iscrizioni didascaliche. Nella prima, commentano le rappresentazioni di Pelagio II e dei santi che lo circondano, San Pietro e San Paolo, disposti rispettivamente a destra e a sinistra del Cristo, San Lorenzo, S. Stefano e S. Ippolito. Le lettere scure, seppur in evidenza sul fondo dorato, non sono leggibili dal basso, pertanto mantengono solo una funzione nominale. Nella basilica dei Ss. Cosma e Damiano le didascalie indicano le figure di Felice IV e di San Teodoro e la rappresentazione del fiume Giordano e dei quattro fiumi paradisiaci. Anche in questo caso le scritte, pur caratterizzate da un discreto contrasto cromatico con lo sfondo, non sono perfettamente fruibili dal piano della basilica. Pertanto, la presenza di questo tipo di epigrafi che, persa ogni valenza trasmissiva, finiscono per acquisire un valore simbolico, è dovuta all'afflusso dei codici miniati di epoca tardoantica. Nel corso del VII secolo, si assiste alla comparsa definitiva di quei segnali di cambiamento già visibili negli edifici di culto del VI. Il mosaico che, tutt'oggi, occupa il catino absidale della basilica onoriana di S. Agnese fuori le mura, raffigurante la martire, al centro, tra il pontefice Onorio (625-639) e papa Simmaco (498-514) è concluso, in basso, dall'iscrizione dedicatoria che, divisa in tre parti, è disposta simmetricamente rispetto ai tre personaggi. Sia la posizione, ormai completamente subalterna all'opera musiva, sia il senso oscuro del testo, che rimanda al significato dottrinale e mistico della luce, collegandosi all'epigrafe originariamente situata sull'arco trionfale, connotano l'iscrizione da un punto di vista esclusivamente simbolico. Anche la scritta didascalica che indica la figura di S. Agnese è ormai completamente offuscata dal fondo dorato. Significativo è il codex, chiuso e impreziosito da gemme, tenuto in mano dal pontefice Simmaco. Ormai, il "libro sacro", non più fruibile dai fedeli, è proposto come un oggetto esclusivamente da venerare. Il testo sacro ha, quindi, definitivamente completato il processo di smaterializzazione e spiritualizzazione che, in ambito figurativo, si sviluppa attraverso la rappresentazione del libro adagiato sul Trono di Dio, in luogo della figura del Cristo, assumendo in tal modo il significato di "Logos". Mara Abruzzese *Abstract della tesi di laurea: Iscrizioni monumentali di apparato negli edifici di culto a Roma dall'età costantiniana al pontificato di Pelagio II (579-590), in "Epigrafia ed antichità cristiane" (relatore: Prof. Carlo Carletti - Università degli studi di Bari). [1] Liber Pontificalis I, p. 172: ".fecit autem et cameram basilicae ex trimma auri fulgentem."; p. 176: ".cameram basilicae ex auro trimita in longum et in latum.". [2] Paulinus Nolanus, Epistula XXIII. [3] Paulinus Nolanus, Epistula XXXII. [4] Paulinus Petricordiensis, Epistula ad Perpetuum. [5] Cod. Parigino Latino 13348, fol. 78: ".hos versiculos.super archum"; Cod. Ambrosiano D. 36 sup., fol. 18: ".versus Constantinae.scripti in absida basilicae". [6] Cod. Vaticano Latino 5407. |