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Cono A. Mangieri, Gentucca ... figlia spuria di Dante?

1. Secondo taluni antichi commentatori del poema dantesco, il nesso grafico «gentucca» (Pg. XXIV 37) non indicherebbe un nome di persona, bensì un modo di dire del volgare lucchese due-trecentesco equivalente a qualcosa come gente ucca = 'gente colà, in quel luogo'. [1] Con moltissimi altri, invece, io sono del parere che il nesso grafico rappresenti un nome autentico, appartenuto a una donna altrettanto autentica conosciuta da Dante: dunque non una donna allegorica, neppure una donna storica e simbolica contemporaneamente, ma una donna ricordata dal poeta senza che il suo genio polisemo si sbizzarrisse in grazia del nomina sunt consequentia rerum, come ben ha fatto col nome di altre donne presenti nei suoi scritti. Io desidero vedere Gentucca nella sua qualità di persona veramente esistita, onde aver modo di giustificare una nuova illazione ermeneutico-biografica. Per dire il vero, questa nuova illazione è stata da me già esposta con un articolo pubblicato, alcuni anni fa, in una rivista universitaria statunitense, [2] ragion per cui l'articolo è stato accessibile soltanto alle persone implicate più specialisticamente nella ricerca critica. Poiché dal nucleo di quest'ultimo gruppo (menziono qui con rispetto il compianto Giorgio Padoan) mi è pervenuto il rimprovero di non aver apportato sufficienti argomentazioni a sostegno dell'accusa di epicureismo (eccessiva prodigalità, golosità e lussuria) da me rivolta al giovane Dante, mi vedo ora indotto ad ampliare il ragionamento di quell'articolo, nella speranza che questa nuova pubblicazione risulti più facilmente accessibile sia agli studiosi sia ai curiosi italiani.

Cominciando ex novo il ragionamento intorno al personaggio, dunque, premetto che ritengo tuttora impellente evitare l'errore commesso finora dai critici, cioè di partire dal luogo in cui Bonagiunta Orbicciani da Lucca, nel vedere Dante venirgli incontro nel Purgatorio, come cadendo in uno stato di trance medianico prende a mormorare parole quasi sibilline:


El mormorava; e non so che «Gentucca»

Sentiv 'io là, ov'el sentia la piaga

de la giustizia che sì li pilucca.



[. . . . . . . . . . . . . . . . . ]



«Femmina è nata, e non porta ancor benda,»

cominciò el, «che ti farà piacere

la mia città, come ch'uom la riprenda.

Tu te ne andrai con questo antivedere:

se nel mio mormorar prendesti errore,

dichiareranti ancor le cose vere. (Pg. XXIV 37-48) [3] 



Voler partire da questo luogo col ragionamento, soltanto perché qui si menziona per la prima volta il nome «Gentucca», è per me indizio che non si sia ben compresa la complessa trama storico-allegorica, entro la quale il poeta ha deliberato di piazzare il personaggio. A mio parere, bisogna invece partire da un brano poetico che va considerato come l'antecedente, il fattore causativo della presenza di «Gentucca» nel poema, nella vita di Dante Alighieri e nel mondo addirittura. Il brano è Pg. XIX 1-33, nel corso del quale si narra il sogno avuto da Dante Protagonista nel primo mattino del 12 aprile 1300. Il sogno verte sull'oramai famosa 


femmina balba,

ne li occhi guercia, e sovra i pie' distorta,

con le man monche, e di colore scialba,

la quale pensa di essere attraente come una Sirena omerica:

«Io son,» cantava, «io son dolce serena,

che' marinari in mezzo mar dismago;

tanto son di piacere a sentir piena!

Io volsi Ulisse del suo cammin vago

al canto mio; e qual meco s'ausa,

rado sen parte; sì tutto l'appago». (vv. 19-24)


Essa però non riesce ad ammaliare Dante come le era riuscito con Ulisse, sia perché Dante reale ha ripudiato ormai da tempo il «cammin vago» comune pure all'Itacese, [4] sia perché Dante onirico viene messo in guardia da una «donna santa e presta», la quale emerge come dal nulla ad allarmare Vergilio, simbolo dell'attuale Ragione dantesca:


«O Virgilio, o Virgilio, chi è questa?»

fieramente diceva; ed el venia

con li occhi fitti pur in quella onesta.

L'altra prendeva, e dinanzi l'apria,

fendendo i drappi, e mostravami il ventre:

quel mi svegliò col puzzo che n'uscia. (vv. 28-33)



Giudico superfluo informare che intorno alla «femmina balba» si sia ormai formata tutta una biblioteca critica ricca di proposte interpretative, con la maggioranza delle quali io non posso andare d'accordo. [5] Da parte mia, infatti, ritengo giustificato vedere in essa un simbolo di raziocinio mirante esclusivamente alla parte sensitiva dell'anima umana: e tale peculiarità si può accreditare soltanto al raziocinio della Filosofia Epicurea, il cui gaudente materialismo traspare palesemente dal racconto dantesco e dagli exempla che l'autore può aver tenuto d'occhio. [6] Peraltro i 'sogni' danteschi, essendo modellati attraverso la credenza filosofica medioevale, anzitutto quella di simpatie neoplatoniche, [7] si riferiscono sempre a situazioni che si verificano posteriormente (anche se in maniera simbologicamente diversa) nella struttura storico-allegorica della cantica. Dunque il sogno circa la Femmina Balba come simbolo di raziocinio epicureo mostra di essere in linea col fatto che Dante Protagonista, attraversando i tre Gironi successivi, si imbatta appunto nei tre peccati 'epicurei' dell'eccessiva Prodigalità, della Golosità e della Lussuria.

Anche per la «donna santa e presta» avrei qui una proposta interpre-tativa originale, che a parer mio va considerata più coerente coi sensi rettorici del Purgatorio (letterale, allegorico, tropologico, anagogico). Difatti io sono dell'avviso che Dante, con l'allegorismo generale del Purgatorio, non faccia altro che confessare ai lettori i peccati che egli stesso considera 'capitali' e crede di aver commesso nella «selva oscura», ossia nel corso della propria Vita Attiva svoltasi tra il 1290 e il 1310. Avendo egli già commesso effettivamente i tre peccati perorati e perciò simboleggiati dalla Femmina Balba, mi pare che l'aiuto della «donna santa e presta» non possa essere visto come l'intervento di un personaggio celestiale, chiunque esso sia e qualunque concetto esso simboleggi.[8] Secondo me, l'intervento di un simbolo divino non troverebbe giustificazione nei sensi reconditi, come non ne ha nel caso degli altri due sogni purgatoriali, neppure nel primo (Pg. IX), nella cui azione rientra un'Aquila che poi, nella realtà post-onirica, si rivela invece essere stata «Lucia».[9] Io sono del parere che «Lucia», contrariamente alle apparenze, non faccia parte di un'adiuvante intromissione divina, ma sia invece il segno dell'avvenuto ravvedimento morale (che poi diverrà anche religioso) reso possibile dalla speranza personale (simboleggiata appunto da Lucia) [10] di poter tuttavia raggiungere la massima felicità o perfezione terrena (l'Eden in cima al «dilettoso monte» di If. I 77), previa purgazione dei sette peccati commessi dal poeta nella «selva oscura» e indicati dalle sette 'P' che il Protagonista riceverà sulla fronte quasi come un segno di Caino, superando la Porta del Purgatorio.

Nel secondo sogno la situazione non è sostanzialmente diversa, pur presentandosi con diversa simbologia: qui il Protagonista viene stimolato a confessare i propri peccati non grazie ad un'Aguglia abbinata a Lucia, bensì grazie a una «donna santa e presta» abbinata a Vergilio. In entrambi i casi lo stimolo a pentirsi riguarda peccati specificati posteriormente: la differenza consiste nel fatto che il primo sogno si riferisce, secondo me, a tutti i peccati purgatoriali (infatti l'Aguglia vola «infino al foco» dell'ultimo Girone, IX 30), mentre il secondo ha di mira solamente i tre peccati di essenza epicurea. Per ricordare al Protagonista la presenza di questi peccati, finora dimenticati oppure tenuti in poco conto per la mancanza del suddetto ravvedimento, il subcosciente moral-religioso (acquisito nella puerizia, però messo a tacere dopo la 'morte' di Beatrice) fa comparire nel suo sogno quel che io considero il simbolo della mentalità epicurea, la Femmina Balba, la quale commemora il peccato edonistico-lussurioso commesso da Ulisse. Ciò avviene perché tale peccato, dal punto di vista moral-religioso, somiglia maggiormente al peccato edonistico-lussurioso commesso da Dante medesimo, in un determinato periodo cronologico-intellettuale della sua vita.

Questa induzione psicocritica si giustifica riflettendo che un poeta allegorico come Dante non può aver portato l'esempio di Ulisse per sfoggiare cultura classicistica: si tratta invece di una studiata mossa psicologico-simbolistica, grazie alla quale Dante intende suggerirci che Ulisse va considerato una controfigura parziale del Protagonista. [11] Portare in esempio l'Itacese, dunque, rappresenta un geniale trucco dell'inconscio moral-religioso dantesco in quanto questo, facendo ricordare dall'antica strega il corto periodo edonistico di Ulisse, riporta a galla e rimette in discussione anche il corto periodo edonistico del Protagonista medesimo. Ma non è solo questo lo scopo onirico perseguito: infatti l'avventura di Ulisse viene pure commemorata affinché il Protagonista, ricordando l'inabissamento finale toccato all'archetipo posteriormente al suo periodo edonistico ( If. XXVI 136-42), possa esserne indotto a capire che tale periodo fosse tuttavia meritevole di castigo divino, nonostante che l'Itacese avesse posto fine volontariamente al proprio traviamento.

In effetti Ulisse non ha usufruito (né avrebbe potuto usufruire) di aiuto celeste per rigettare il proprio periodo edonistico: l'eroe itacese è 'dipartito' volontariamente da Circe, dunque ha posto fine a un periodo di piaceri sensitivi con un atto di volontà suggeritogli, logicamente, dal risveglio in lui delle stesse Virtù Cardinali divenute poi il cavallo di battaglia degli Stoici. Tutto ciò mi sembra deducibile anche dal racconto del personaggio controfigurale:


Quando mi diparti' da Circe, che sottrasse

me più d'un anno là presso a Gaeta,

prima che sì Enea la nomasse,

né dolcezza di figlio, né la pièta

del vecchio padre, né 'l debito amore

lo qual dovea Penelopè far lieta,

vincer potero dentro a me l'ardore

ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto

e de li vizi umani e del valore. (If. XXVI 90-9) 


Ciò leggendo e riconsiderando, si deve per forza concludere che Dante, influenzato forse da Orazio (Epistole I, 2), deve aver immaginato che Ulisse fosse divenuto 'stoico' dopo l'intermezzo 'epicureo' presso Circe. Logicamente si tratta di uno stoicismo ante litteram, però alquanto analogo a quello di Catone, che similmente aveva troncato di propria volontà un periodo di lascivia: anch'egli aveva messo da parte la moglie Marzia (figurazione di Penelope) in favore di un'altra donna (figurazione di Circe), dalla quale era poi 'dipartito' riprendendosi Marzia; [12] quindi aveva tentato, come Ulisse, di continuare il viaggio esistenziale con alcuni compagni sopravvissuti, finché aveva anch'egli avvistato la propria «montagna bruna», ovvero l'Impero divinamente predestinato, ed era rimasto travolto dal suo «turbo» rappresentato da Cesare. Non conta molto, a tal riguardo, l'obiezione che l'Uticense si sia suicidato e l'Itacese sia stato invece abbattuto dal Fato: a mio parere, intraprendere presuntuosamente un «folle volo», come quello attribuito da Dante ad Ulisse, è lo stesso che appartarsi per commettere harakiri ; così come essere costretto a suicidarsi è lo stesso che ricevere una letale batosta dal Fato.

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[1] Per le opinioni inerenti al nome e all'essere di «Gentucca», rinvio alla voce curata da G. VARANINI , Gentucca, Enciclopedia Dantesca, Roma, IEI 1971-6.

[2] C.A. MANGIERI, Gentucca dantesca e dintorni, Rutgers State University of New Jersey (U.S.A.), Italian Quarterly 125-126 (1995), pp. 5-22. Il saggio attuale è leggibile pure presso www.danteide.com e www.classicitaliani.it

[3] Tutte le citazioni dalla Divina Commedia comprese in questo articolo si conformano al testo curato da G. PETROCCHI, La Commedia secondo l'antica vulgata, Milano, Mondadori 1965-6.

[4] Per il discusso valore di «vago» (onde vedasi almeno A. NICCOLI, Vago, Enciclopedia Dantesca, cit.) io adotto il significato di 'vagante', ossia privo di una méta nota e sicura. Pertanto io considero questo «vago» diverso da quello di Pg. XXIV 40 (dove significa 'voglioso', come in Pg. XXVIII 1), e lo accosto invece al «vago vago» di Pg. XXXII 135, la cui reiterazione rafforza ed indica qualcosa come 'insicuro, vagolante'.

[5] Per le varie interpretazioni allegoriche della Femmina Balba rinvio anzitutto alla voce curata da B. BASILE nell'Enciclopedia Dantesca, cit.. Ma vedasi pure la reviviscenza critica operata da G. MURESU, Il richiamo dell'antica strega, Rass. d. letteratura italiana 1 (1996), pp. 5-38 (poi nel volume Il richiamo dell'antica strega. Altri saggi di semantica dantesca, Roma, Bulzoni 1997), dove si rinviene anche una buona panoramica di interpretazioni relative al sogno stesso.

[6] Per le probabili fonti di cui può essersi servito il poeta per creare la Femmina Balba, alias Dolce Serena, si veda l'ancor valido G. PADOAN, Il pio Enea, l'empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale di Dante, Ravenna, Longo 1977, p. 201 sgg.; una trattazione più recente dell'argomento è stata offerta da G. MEZZADROLI , Dante, Boezio e le sirene, Lingua e Stile 1 (1990), pp. 25-56.

[7] Va ricordato che il Neoplatonismo tenta di conciliare precetti platonici con precetti aristotelici e stoici. Dei tre sogni purgatoriali si sono occupati anche alcuni dantisti di lingua anglosassone, tra i quali D.S.CERVIGNI (Dante's poetry of dreams, Firenze, Olschki 1986) e Z.G. BARANSKI (Dante's three reflective dreams, Quaderni d'Italianistica X, 1989), entrambi con proposte interpretative talvolta assai audaci.

[8] Poiché la stragrande maggioranza dei critici vede nella «donna santa e presta» un simbolismo inerente a Beatrice discesa dal cielo, mi limito qui a menzionare soltanto tre opinioni divergenti: quella di C. PAPARELLI, che la crede simbolo della Giustizia (Ideologia e poesia di Dante, Firenze, Olschki 1975, pp. 210 sgg.); quella di M. MARTI, che la ritiene simbolo della Vita Attiva (Studi su Dante, Galatina, Congedo 1984, p. 125); quella di MURESU, il quale e la considera - come alcuni altri - simbolo della Grazia Divina (Il richiamo dell'antica strega, cit., p. 16). Secondo gli antichi commentatori, si tratterebbe invece della Ragione oppure della Filosofia. Col mio ragionamento esegetico, io sostengo, specifico e concilio queste due antiche interpretazioni.

[9] Secondo Sant'Isidoro (Originum, XII 7, 10) «aquila ab acumine oculorum vocata est»; valore semantico suggerito dalla credenza che l'uccello potesse fissare il sole senza rimanerne abbacinato. I figli che se ne dimostravano incapaci venivano cacciati dal nido, perché ritenuti «bastardi» (secondo il Tresor di Brunetto Latini). Onde anche l’anonimo Bestiario Toscano: «Questa aquila, in ciò ch'ella fa prova de li suoi figliuoli, significa che tutti quelli che mirano coll'occhio del cuore inverso di quello splendore che tutto lo mondo allumina, cioè Cristo, tutti questi cotali si ponno assimigliare ad aquila, e di loro può ben dire lo padre celeste: - Questi sono veracemente li miei figliuoli - » (testo curato da Garver e McKenzie, Studi Romanzi VIII, 1912 , p. 57). Da ciò si capisce che Dante, scegliendo l'Aquila come mezzo di trasporto, abbia raggiunto due scopi: ha conformato l'inconscio onirico alla simbologia para-religiosa medioevale ed ha espresso il desiderio di divenire un degno 'figliuolo dell'Aquila' nel senso metaforico dell'espressione. Peraltro anche effettuando la sostituzione «Aguglia» - «Lucia» egli è rimasto nell'ambito di quella simbologia, giacché se l'Aquila era ritenuta campionessa della buona vista, Lucia era considerata a sua volta protettrice della buona vista.

[10] A tal proposito va ricordato che Dante Protagonista viene detto «fedele» di Lucia, in If. II 98. Io opino che questa definizione non abbia a che fare con una speciale devozione del poeta, bensì col fatto che Lucia dantesca simboleggi anzitutto la «speranza de lo proveduto desiderare» (Convivio III xiv 14); ossia la speranza che si realizzerà ben presto ciò che in precedenza si è visto (magari anche in un sogno) e di conseguenza desiderato (onde cfr. pure Pd. XXV 67 sgg.). Lucia rappresenta una virtù simultaneamente filosofica e teologica, dunque, e sarebbe per tal motivo che essa dimora nelle «Atene Celestiali» verso cui 'concorrono', cioè tentano di venire, anche le tre Sètte Filosofiche della Vita Attiva (Epicurei, Stoici e Peripatetici), stando a Convivio III xiv 15.

[11] Onde la manipolazione biografica di If. XXVI. Con 'controfigura parziale' bisogna intendere un'Anima ultramondana che ha avuto affinità intellettuali con Dante, durante un periodo cronologico anteriore all'incontro ultramondano. Col superamento dell'Anima da parte del Protagonista termina la funzione controfigurale suggerita e si passa alla successiva: in tal modo, il poeta riesce ad allegorizzare/simboleggiare una grande quantità di periodi cronologico-intellettuali da lui stesso realmente superati nel corso della vita. Che Ulisse debba esser visto come una controfigura parziale di Dante, almeno per un corto periodo, è cosa già intuita da parecchi critici, pur non utilizzando la stessa definizione e pur senza determinare la profondità analogica del simbolismo. Fin troppo lunga sarebbe una panoramica aggiornata degli studi sul personaggio dantesco, ragion per cui rinvio soltanto all'esauriente saggio di R.GIGLIO (Il folle volo di Ulisse, di Dante e di ... , Critica Letteraria 86-87, 1995, pp. 123-51), nel quale il critico offre una nutrita bibliografia ed ugualmente mostra di considerare Ulisse «la figura di una parte di Dante smarrito nella selva oscura» (p. 148).

[12] Che Dante possa aver pensato in direzione di questa similitudine, io lo ritengo deducibile da Convivio IV xxviii 13 sgg., dove il poeta costruisce qualcosa di analogo per Marzia.

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