Cono
A. Mangieri, Gentucca ... figlia spuria di Dante?
4. Ma di che tratta, che cosa vuol suggerirci concretamente
questo secondo sogno del Purgatorio; ossia quale peccato epicureo
dantesco si cela dietro il velo del suo linguaggio onirico-metaforico? Giacché
se la gaudente Femmina Balba rappresenta i peccati edonistici purgati
nei tre Gironi superiori, e se vediamo Dante Protagonista marchiato, entrando
nel Purgatorio, con sette 'P' relative ai propri peccati, ciò significa
inconfutabilmente che l'autore medesimo si sia ritenuto colpevole di ben
sette peccati commessi durante la giovinezza, tre dei quali sono di natura
edonistica: l'eccessiva Prodigalità, la Golosità e la Lussuria.
Dunque possiamo e dobbiamo considerare reale il fatto che Dante abbia
commesso tutt'e tre i peccati epicurei, nell'indeterminato periodo cronologico
che egli chiama «selva oscura». Adesso tocca a noi determinare,
in maniera precisa, sia il tempo in cui dovrebbero essere stati commessi
questi peccati, sia il reale contenuto peccaminoso di essi.
Per cominciare dobbiamo appurare se il sogno stesso, così come
ci viene presentato, offre appigli ermeneutici atti a far concludere che
esso si riferisca all'insieme dei tre peccati edonistici. Come s'è
detto, infatti, la Femmina Balba è definita dal poeta medesimo,
per bocca di Vergilio, il simbolo di un concetto peccaminoso che si purga
più sopra della quarta cornice, nella quale avviene il sogno:
«Vedesti,» disse, «quell'antica strega
che sola sovr'a noi omai si piagne;
vedesti come l'uom da lei si slega». (XIX 58-60)
Queste scarne parole vengono dette da Vergilio salendo la scala che porta
al quinto Girone: a rigor di logica, dunque, l'espressione «sovr'a
noi» indicherebbe anzitutto il quinto Girone, se non vi fosse il
precedente aggettivo «sola» ad annullare paradossalmente la
restrizione, estendendo il 'pianto' a tutt'e tre i Gironi che restano.
Ciò si può affermare con decisione, nonostante il fatto
che nel quinto Girone si purghino eccezionalmente due peccati, l'Avarizia
e la Prodigalità eccessiva, i quali, pur essendo i reciproci opposti,
sono tuttavia per Dante, il quale si basa sulle dottrine peripatetiche,
[1] non solo l'effetto di un analogo difetto di volontà (che genera
l'eccesso nel troppo o nel poco), ma pure la causa di un comportamento
analogo nei riguardi di Dio. Infatti così come l'epicureo considera
la presenza di eccessiva prodigalità un modo per godersi la vita
terrena senza preoccuparsi di Dio e di una vita ultraterrena, nella quale
non crede affatto, [2] similmente l'avaro vede nell'assenza di ogni
prodigalità un modo per accumulare ricchezze materiali senza badare
a quelle spirituali, e perciò senza rivolgere la mente a Dio, quasi
non vi fosse altra vita dopo di questa terrena.
Come si sa, circa questa peculiarità dell'Avarizia siamo informati
da Dante per bocca di papa Adriano V (Pg. XIX 115-20), che è intento
a purgarsi appunto di tale colpa e che non è una 'controfigura
parziale' del Protagonista: infatti quest'ultimo non sa neppure che cosa
sia l'avarizia, ed ha perciò bisogno della delucidazione offertagli
dal penitente pontefice. A mio parere, l'ignoranza di Dante Protagonista
circa l'essenza di un peccato è sempre indizio allegorico (anche
in Inferno) che il peccato in questione non gli pertiene. Peraltro va
evidenziata la piccola commediola mimico-allegorica che si svolge tra
Vergilio e Dante, prima che quest'ultimo riceva il permesso di parlare
con papa Adriano: si può esser certi che questa commediola abbia
appunto a che fare con l'assenza del peccato dell'Avarizia nella lista
delle sette 'P', dunque pure con l'assenza di una necessità allegorica
personale che giustifichi il colloquio. In effetti, io credo che il poeta
abbia chiamato in vita il colloquio con papa Adriano solo per informare
il lettore circa la purgazione di due peccati nello stesso Girone, così
come la richiesta di permesso serve a denunciare l'estraneità del
peccato. Io sono convinto che il 'permesso' di Vergilio sia necessario
ogni volta che Dante Protagonista parla con un peccatore che non abbia
funzione controfigurale nei suoi riguardi (ricordo qui almeno il colloquio
di Dante con un'Anima che presenta connotati non molto dissimili da quelli
di papa Adriano: l'usuraio padovano Vitaliano, If. XVII 37 sgg.).
Poiché le sette 'P' sulla fronte del Protagonista indicano i peccati
da lui stesso commessi, dunque, e siccome la quinta 'P' va attribuita
con certezza al peccato di eccessiva prodigalità, diventa ovvia
la ragione per cui Vergilio può dire che la Femmina Balba «sola
sovr'a noi omai si piagne»: può dirlo perché egli,
nella sua funzione simbolica di Ragione Dantesca, si riferisce soltanto
ai peccati che gravano sull'anima di Dante Protagonista, escludendo così
automaticamente l'Avarizia e addossando ad un solo simbolo onirico la
rappresentazione dei tre rimanenti peccati. Come a dire, insomma: nei
prossimi Gironi ti restano da 'piangere' soltanto i peccati edonistici
simboleggiati dall'antica strega.
Ora non è affatto difficile comprovare che l'adolescente Dante
abbia peccato di eccessiva prodigalità, giacché noi abbiamo
a disposizione non solo la Vita Nuova, ma pure la Tenzone con Forese
Donati, la quale ultima è capace di illuminarci finanche sulla
sesta 'P' relativa al peccato della Gola. Lungi dall'esercitare un
«forte effetto fuorviante» sull'interpretazione del Forese
purgatoriale, [3] questa serie di sonetti giovanili ci mette a conoscenza
della vita eccessivamente spendacciona e gaudente menata da Dante e da
Forese, in un periodo cronologico-intellettuale che io posso collocare
tra il 1283 e il 1290; vale a dire nell'epoca delle due Donne Schermo
di Vita Nuova V sgg. [4] Come si sa, i critici danteschi hanno
smesso da parecchio tempo, ormai, di azzardare congetture circa il significato
simbolico delle due Donne; anzi, hanno finanche messo da parte l'idea
che la Vita Nuova contenga vero e proprio simbolismo, visto
che la sua (presunta) datazione indicherebbe un Dante troppo 'immaturo'
per compiere siffatte prodezze rettoriche. Io sono giunto ad altre conclusioni,
per ciò che riguarda il contenuto allegorico e la datazione del
«libello», ma in questa sede debbo limitarmi a considerare
il simbolismo delle due Donne Schermo, per quel tanto che interessa l'attuale
argomentazione.
La Prima Donna Schermo entra in scena subito dopo la seconda apparizione
di Beatrice, che a sua volta avviene quando Dante ha appena compiuto i
diciotto anni di età, dunque nel 1283. Questa Donna, nella quale
io vedo un simbolo di gaudente vita goliardica, scompare dopo «alquanti
anni e mesi» (Vita Nuova V 4), poco prima di un evento presentato
come una cavalcata del giovane Dante lungo «uno fiume bello e corrente
e chiarissimo». Come tutti i lettori, anch'io sono del parere che
il fiume sia l'Arno; è per la 'cavalcata', invece, che guardo
a un diverso valore metaforico-sugggeritivo, in quanto penso che essa
alluda alla Taglia Guelfa contro i Ghibellini di Arezzo, che risultò
nella battaglia di Campaldino. [5] Mi sembra doveroso pensare a questa
Taglia, perché la 'cavalcata' avviene lungo «uno fiume bello
e corrente e chiarissimo», com'era l'Arno (oggi lo è di meno)
appunto nel tratto al di sopra degli scoli di Firenze, cioè nel
Casentino. [6] Alla battaglia di Campaldino, combattuta e vinta l'11 giugno
1289, partecipò anche Dante in funzione di 'cavaliere feditore'.
[7]
Tornato dalla 'cavalcata', Dante si è dato alla Seconda Donna Schermo,
nella quale io vedo un simbolo di vita epicurea; e sarebbe appunto il
contenuto concreto di questo nuovo simbolo, secondo me, a causare il broncio
dell'altro simbolo Beatrice, che improvvisamente nega il saluto a Dante (Vita
Nuova X). Poiché abbiamo sempre a che fare con un simbolismo
che interessa l'intelletto dantesco, in seno al quale «Beatrice»
personifica inconfutabilmente un concetto legato alla Religione e alla
Divinità (non per nulla è lei a portare Dante Protagonista
in Empireo), dobbiamo capire che il 'silenzio di Beatrice' nient'altro
rappresenta, se non l'improvvisa noncuranza di Dante medesimo per la Religione
e per la Divinità. Poiché ciò avviene a causa dell'influsso
esercitato dalla Seconda Donna Schermo, il simbolismo di costei deve avere
indubbiamente a che fare appunto con l'Epicureismo, l'unica filosofia
che ha per effetto non soltanto un terzetto di peccati assai gravi (eccessiva
Prodigalità, Golosità e Lussuria), ma anche un totale disinteressamento
dell'intelletto per la vita religiosa. [8] Per il fatto che Dante
si sia dato a questa Donna subito dopo la Taglia contro i Ghibellini di
Arezzo, il simbolismo può essere piazzato nel periodo cronologico
1289-90, però esso denota un abbrivo iniziale già nel periodo
precedente, cominciato nel 1283 e simboleggiato dalla Prima Donna Schermo. In
effetti bisogna rammentare che nella «pìstola sotto forma
di serventese», scritta in quest'ultimo periodo, Beatrice viene
situata solamente al posto numero 'nove', fatto che implica una palese
retrocessione (peraltro sorvolata completamente dai critici, tutti abbagliati
dal miracoloso numero). Ugualmente durante il periodo influenzato
da quella simbolica Prima Donna Schermo, Dante ha composto pure altre
«cosette per rima», tra le quali io annovero senza alcuna
remora la contrastata Tenzone con Forese Donati.
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[1] Aristotele ne parla specialmente nell'Etica Nicomachea II-IV; però
Dante stesso tocca l'argomento in Convivio IV vi e IV xvii.
[2] Epicuro insegnava che il fine della vita è il piacere, il quale
si può provare soltanto durante l'esistenza terrena, giacché
come gli Dei non si occupano degli uomini, né intervengono nelle
faccende di questo mondo, così gli uomini non debbono occuparsi
degli Dei, né debbono illudersi di poter guadagnare in questa vita
un posticino postumo nella gloria dell’Olimpo. Secondo Epicuro,
il genere umano dispone soltanto della vita terrena, che deve perciò
essere goduta nel più piacevole dei modi fino alla morte, dopo
la quale l'anima si dissolve nel cosmo assieme con la materia. Le informazioni
sull'ideologia di Epicuro sono pervenute a Dante attraverso Cicerone e
i Dottori Ecclesiastici.
[3] E' il parere di G. SAVARESE, il quale vede un fattore disturbante
nel 'surplus' di informazione presente nei sonetti, tuttavia tende lodevolmente
ad effettuarne un'interpretazione positiva (cfr. Una proposta per Forese
e altri studi su Dante, Roma, Bulzoni 1992, p. 29).
[4] Com'è noto, Dino S. Cervigni e Guglielmo Gorni hanno pubblicato
recentemente due lezioni della Vita Nuova diverse da quella barbiana in
più luoghi del testo grafico e della ripartizione interna; anzi,
il Gorni adotta per il libello finanche un titolo latino (cfr. rispettivamente
D. Alighieri, Vita Nuova, edizione critica di D. S. Cervigni ed E. Vasta,
U. S. A., University of Notre Dame Press 1995; D. Alighieri, Vita Nova,
testo critico di G. Gorni, Torino, Einaudi 1996). Nel presente articolo
io non adotto le innovazioni (talvolta buone) proposte dai due studiosi,
per venire incontro alla maggioranza dei lettori, tutti cresciuti con
la lezione barbiana sott'occhio.
[5] Questo viaggio di andata e ritorno fatto da Dante, nell'estate del
1289, ha ispirato un paio di curiose interpretazioni concrete. Secondo
F. TORRACA (Di un aneddoto dantesco, Reale Accad. d. Scienze di Napoli
V, 1916), il viaggio avrebbe portato il giovane poeta verso Faenza, per
accompagnamento di messer Lottieri della Tosa, che vi si recava quale
nuovo Vescovo e vi giungeva il 30 settembre 1287. Prima di lui, A. D'ANCONA
(La 'Vita Nuova' di Dante Alighieri, Pisa, C.E.S. 1894) aveva ben visto
nel viaggio una spedizione militare, ma s'era fermato nel periodo 1283-7
e perciò non ne aveva estratto qualche relazione con le Taglie
del 1289. Questo modo d'interpretare è tanto più strano
in quanto le due spedizioni militari del 1289, contro i Ghibellini di
Arezzo e di Pisa rispettivamente, sono le uniche operazioni belliche di
cui Dante sembra confessarsi colpevole nel poema: infatti la prima Taglia
viene ricordata in Pg. V 91-3; la seconda, in If. XXI 94-6. E si faccia
attenzione a questi dettagli strutturali: la menzione delle due Taglie,
nelle due cantiche, occupa in tutto sei versi (una terzina per ciascuna
Taglia), la cui numerazione progressiva, da 91 a 96, sembra quasi rispecchiare
la sequenza cronologica dei fatti storici in questione.
[6] Secondo G.VILLANI (Cronica VIII 39), nel 1300 Firenze avrebbe avuto
«più di trentamila cittadini»; ed è palmare
che le loro fogne si riversassero, direttamente o per infiltrazione, nel
fiume che attraversava la città. Operosissime erano le industrie
del lavaggio della lana e della tintura delle stoffe; migliaia di casalinghe
vi sciacquavano dentro giornalmente i panni della famiglia o del padrone.
E l'Arno accoglieva silenzioso tutta questa sporcizia materiale (alla
quale Dante aggiunge quella spirituale, in Pg. XIV 22 sgg.).
[7] La ricchezza dei dettagli descrittivi, che vengono alla luce attraverso
il resoconto fattone da Buonconte da Montefeltro (Pg. V 94 sgg.), serve
a Dante per suggerire contemporaneamente anche la propria presenza fisica
al fatto d'armi raccontato.
[8] L'essenza epicurea della Seconda Donna Schermo traspare già
dal contesto di Vita Nuova X 2: «E per questa cagione, cioè
di questa soverchievole voce che parea che m'infamasse viziosamente, quella
gentilissima, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina de
le virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo
salutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine» (testo curato
da M.BARBI, Firenze, Bemporad 19325). Il dire che Beatrice fu «distruggitrice
di tutti li vizi e regina de le virtudi» è una palese allusione
al valore antitetico del simbolo nei confronti della Seconda Donna Schermo,
per colpa della quale avviene la negazione del saluto. Peraltro anche
in Pg. XXX 109 sgg. si ha un contesto chiaramente allusivo a questo breve
periodo epicureo cominciato nell'estate del 1289. L'epicureismo giovanile
dantesco venne reputato molto probabile da A. PAGLIARO (Saggi di critica
semantica, Messina-Firenze, D'Anna 1953, p. 370); a sua volta A. PEZARD,
non riuscendo a giustificare le affermazioni conviviali favorevoli ad
Epicuro, fu dell'ambiguo parere che Dante non fosse stato contrario all'Epicureismo
come dottrina filosofica, ma soltanto come sistema nocivo alla società
(Un Dante épicurien?, Parigi 1959, Miscellanea per E. Gilson, p.
356 sgg.).
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