Cono
A. Mangieri, Gentucca ... figlia spuria di Dante?
6. A questo punto, tenendo conto della circostanza che
la Tenzone con Forese trova anche dal punto di vista linguistico una giustificata
collocazione nell'opus dantesco, io sono del parere che essa possa essere
considerata genuinamente dantesco-donatiana, per quanto bizzarro sembri
il fatto che Dante abbia conosciuto in gioventù un estro così
estemporaneo (però si badi che la punzecchiatura velenosa, lo sfogo
esecratorio e perfino il linguaggio triviale ricompaiono anche nel poema,
specie in Inferno, cantica del negativismo giovanile dantesco...) o che
Forese abbia composto soltanto quei tre sonetti (ma non si sa se altri
siano andati perduti; e del resto egli non sarebbe l'unico rimatore duecentesco
con tale penuria creativa). A mio giudizio, ciò basta sicuramente
per indurci a credere che i tre sonetti danteschi della serie siano parte
integrante delle «cosette per rima» dettate in onore della
Prima Donna Schermo, ossia sotto l'influsso di questo simbolo intellettuale.
Pertanto si cade in un grossolano abbaglio interpretativo, se dietro la
Prima Donna Schermo si immagina una ragazza fiorentina: essa simboleggia
invece qualcosa di intellettuale esclusivamente interiore, un concetto
astratto presentato in un linguaggio metaforicamente concreto, non diversamente
da quel che si verifica con la Seconda Donna Schermo, con la «gentile
donna giovane e bella molto» e con ogni altra 'donna' dantesca,
giacché per Dante (e per i poeti cavalcantiani) una Donna era «Donna»
solo se aveva acquisito un posto di rilievo (domina) nell'Anima Complessiva
del poeta che la decantava.
Constatando che Dante è divenuto amico di Guido Cavalcanti proprio
nel 1283, cioè nel suo diciottesimo anno d'età, [1] noi
siamo indotti a credere che l'adolescente si sia dato pure lui alle feste
dispendiose, tipiche dell'ambiente intellettuale fiorentino del quale
faceva parte l'averroistico-epicureistico Cavalcanti. A mio parere,
sarebbe questo ambiente a ricevere la denominazione semidantesca di
"Setta dei Fedeli d'Amore", la quale a sua volta corrisponderebbe
alla "chompagnia dell'Amore" menzionata da Giovanni Villani.
[2] In questa attiva partecipazione del giovane Dante alla dolce
vita cittadina va cercata l'origine delle colpe di prodigalità
e golosità eccessive, delle quali il poeta coraggiosamente si accusa
nel Purgatorio. Effettivamente questa «chompagnia» di
intellettuali capeggiata dal Cavalcanti non dovrebbe essere stata altro
che una Brigata Spendereccia ingentilita e gentilesca, di cui parecchie
ve n'erano nella Toscana e nell'Italia del Duecento. Brigate che, come
testimonia il Villani, usavano riunirsi «in conviti assieme e in
desinari e in cene», spendendo a piene mani il loro gruzzolo; e
siccome talvolta ne facevano parte membri poco agiati oppure adolescenti
ancora privi di patrimonio personale, sovente accadeva che non tutti potessero
sopportarne le pazze spese, di modo che «de rei veritate aliqui
eorum iverunt ad hospitale», come argutamente informa Benvenuto
da Imola. [3] Ora si deve tenere presente che ire ad hospitale non
significava essere malati e perciò bisognosi di cure mediche, ma
era invece un'espressione alquanto eufemistica usata per dire: andare
all'ospizio dei poveri per elemosinarvi cibo, panni usati e forse un tetto
sopra il capo. Dunque rappresentava una condizione vergognosa, riservata
generalmente ai più poveri, che però si profilava anche
per coloro che avessero voluto fare un passo più lungo delle proprie
gambe, dandosi a spese che non potevano permettersi. Ed è esattamente
la stessa vergognosa fine che Forese Donati profetizza pure all'amico
Dante, nel quarto sonetto della Tenzone:
A lo spedale a Pinti ha' riparare! [4]
Ciò non può significare altro, se non che il diciottenne
Dante abbia veramente preso parte alle feste dispendiose tenute dalla
«chompagnia» cavalcantiana, durante l'estate del 1283, dissipando
parecchi fiorini della cassa familiare, tanto che, per fornirsi di denaro
liquido e sopperire in tal modo alle ristrettezze economiche personali
e familiari, s'è visto costretto non solo a mendicare presso San
Gallo, l'ospizio fiorentino dei poveri, ma pure a vendere (secondo un
antico documento fiorentino) un credito ipotecario del padre appena defunto.
[5] Ciò accettando, diventa palese che il quarto sonetto della
Tenzone debba suggerire il principio del 1284, visto che Forese vi può
immettere questi amichevoli consigli di vita:
Va rivesti san Gal, prima che dichi
parole o motti d'altrui povertate,
ché troppo n'è venuta gran pietate
in questo verno a tutt'i suoi amichi.
Il significato che penso di dover estrarre dai versi è il seguente:
«Vai a riportare a San Gallo le robe ricevute in elemosina (anzitutto
panni e coperte, secondo che suggerisce il deverbale «rivesti»), prima
di metterti a cianciare dell'altrui povertà; robe di cui tu avevi
così urgente bisogno, che persino «tutt'i suoi amichi»
(cioè tutti gli altri poveracci che frequentavano abitualmente
San Gallo) si sono mossi quest'inverno ad aver pietà della tua
condizione economica ancora più misera».
Si può benissimo opinare, a mio avviso, che il «verno»
a cui allude Forese sia quello del 1283-4, ossia giusto quello che seguì
alla festa di San Giovanni del 24 giugno 1283 ed al dispendioso modus
vivendi tenuto successivamente dalla «chompagnia dell'Amore»
menzionata in maniera così speciale da Giovanni Villani. [6] Si
capisce inoltre che questo sonetto, assieme con gli altri della Tenzone, serva
a comprovare non solo il peccato di eccessiva prodigalità, ma anche
il complementare peccato di gola, commessi da Dante nell'adolescenza e
confessati nel Purgatorio. Una volta assodata la presenza storica
di questi due peccati nel curriculum vitae novae di Dante, comincia
a diventar chiaro che non si debba più reputare assurda l'illazione
che il poeta possa aver commesso anche il terzo peccato edonistico, cioè
quello di lussuria purgato nel settimo Girone. Per esaminare questa probabilità,
si rende necessaria un'interpretazione allegorica di quella parte
del passo riguardante la Femmina Balba, donde estrarre le prove che questo
simbolo di vita epicurea sia stato fornito dei contrassegni capaci di
indicare tutt'e tre i peccati edonistici. Ecco la parte in questione:
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i pie' distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come 'l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d'ora, e lo smarrito volto,
com'amor vuol, così le colorava. (XIX 7-15)
Chiosando questo brano, quasi tutti i commentatori antichi hanno fatto
sapere di credere che la descrizione della Femmina Balba serva a indicare
i peccati purgati nei Gironi seguenti, escluso quello di eccessiva prodigalità
commesso dal bravo Stazio; sicché (commenta ad esempio il Buti)
la balbuzie alluderebbe al peccato della gola, la guercezza si riferirebbe
alla lussuria e le mani monche tradirebbero l'avarizia. [7] Mi preme
dire di credere che la Commedia non può essere interpretata
in maniera responsabile senza l'apporto suggeritivo delle opere minori,
anzitutto del Convivio; il che vuol dire che nell'interpretazione
bisogna per forza tener debito conto delle regole simbologiche enunciate
dal poeta medesimo. Effettivamente nella guercezza della Femmina Balba
va vista obbligatoriamente un'allusione al fatto che gli occhi di un simbolo,
nella poetica di Dante (e degli Stilnovisti), siano portatori di un messaggio
peculiare: quelli della Sapienza, per esempio, «sono le demonstrazioni,
con le quali si vede la veritade certissimamente». [8] Accettando,
per logica induzione, che gli occhi della Sapienza debbano essere immaginati
retti, sani e belli, appare altrettanto logico che, se questa Femmina
Balba li mostra invece 'guerci', ciò debba poter significare che
essi sono le «demonstrazioni» del concetto opposto, cioè
della menzogna e della falsità, come si addice a un simbolo di
Filosofia Epicurea. Questa interpretazione appare convalidata anche dalla
balbuzie, con la quale si vuole indubbiamente suggerire qualcosa circa
l'imperfezione ragionativo-esplicativa di quella filosofia. Il fatto che
l'antica strega sia «sovra i pie' distorta», poi, suggerisce
di prim'acchito un razionalismo che si muova su basi deformi, come fa
l'Epicureismo nel giudizio del Dante Edenico, e costituisce un recondito
rinvio alla figura eticamente e fisicamente antitetica di Matelda, la
quale ugualmente canta, però movendosi graziosamente su due piedi
da prima ballerina:
Come si volge con le piante strette
a terra e intra sé donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette; (Pg. XXVIII 52-4)
per tacere dei suoi begli occhi:
non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume. (ivi, vv. 64-6)
E come si può interpretare coerentemente il messaggio delle «man
monche» (anch'esse antitetiche a quelle di Matelda e del suo archetipo
Lia, Pg. XXVII 102), se non pensando a una pena di contrappasso, per tramite
della quale s'intende colpire appunto quel razionalismo filosofico che
suggerisce di spendere 'a piene mani' ? [9] Similmente bisogna tener conto
della regola del contrappasso per spiegarsi il colore 'scialbo', giacché
è noto che i Golosi siano piuttosto rubicondi e paffutelli. [10]
Per ciò che concerne le allusioni al peccato lussurioso, esse sono
addirittura preponderanti, giacché la maggior parte del comportamento
dinamico assunto dalla Femmina Balba è una chiara dimostrazione
di concupiscenza carnale, sicuramente nei vv. 10-5 sopra riportati: quella
lingua guizzante, quel volto «smarrito», ossia in attesa di
voluttuose sensazioni, son tutti inconfondibili connotati della lussuria.
Il vanto di aver sedotto anche Ulisse, ovviamente per il tramite di una
«dolce serena», non è solo allusivo a dolci piaceri
venerei, ma è pure indicativo dell'astratta universalità
del simbolismo; ossia del fatto che il concetto astratto simboleggiato
possa comunicarsi anche per mezzo di intermediari diversamente naturati.
Se a ciò si aggiunge l'evento allegorico che la Femmina Balba subisce
una messa a nudo quasi del tutto 'fisica' da parte di Vergilio (il quale,
rappresentando la filosofia a-sessualistica del Peripatetismo, non osa
neppure osservare le nudità, mentre le solleva la gonna per mettere
in mostra la zona inguinale), [11] allora non è più da negare
che la scena serva a comprovare appunto il peccato di Lussuria.
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[1] La data del 1283 si estrae da Vita Nuova III 1 (dove Dante informa
di aver or ora compiuto il suo diciottesimo anno d'età) e da Vita
Nuova III 14-5 (dove Dante informa di aver scritto allora il primo sonetto
di Vita Nuova, «A ciascun'alma», e di aver ricevuto risposta
poetica anche da Guido: «E questo fue quasi lo principio de l'amistà
tra lui e me»).
[2] VILLANI scrive (Cronica VII 88) che una certa compagnia di buontemponi
fiorentini abbia portato in giocosa processione «uno Segnore detto
dell'Amore», durante la festa di S.Giovanni del 1283, e che poi,
nei mesi successivi, la compagnia abbia fatto molte feste private, «andando
per la terra (= città e sobborghi) con trombe e diversi stormenti,
in gioia e in allegrezza e stando in conviti assieme, in desinari e in
cene».
[3] BENVENUTO, Comentum super Dantem Aldighierii Comoediam, cur. G.F.Lacaita,
Firenze, Barbera 1887, vol. II, p. 412.
[4] Le mie citazioni dalla Tenzone con Forese Donati seguono il testo
curato da M. Barbi e F. Maggini, Rime della 'Vita Nuova' e della giovinezza,
Firenze, Le Monnier 1956.
[5] Accettando la datazione del 1283-4 per la Tenzone, dal primo sonetto
responsivo di Forese appare evidente che a tale data il padre di Dante
fosse già morto: infatti Forese afferma di essere passato per il
cimitero e di avervi incontrato Alighiero, il quale gli avrebbe detto:
«Scioglimi, per amor di Dante!»; il che vuol dire, secondo
me: 'Per il bene di Dante, scioglimi, sicché io possa mettergli
la testa a buon partito'. Naturalmente si tratta di un finto colloquio
(quanti ne avrebbe inventati Dante stesso, alcuni anni dopo ...); però
il fatto che il luogo dell'azione sia stato situato nel cimitero induce
a credere che la punzecchiatura si riferisca allo spirito del defunto
Alighiero, il quale, prigioniero ovviamente dei legacci della Morte, prega
di esserne liberato per correggere il figlio, divenuto un po' scapestrato
appunto per l'assenza del freno paterno. Pertanto la morte del padre di
Dante andrebbe datata anteriormente al 1283, ma non tanto quanto hanno
opinato taluni critici, i quali ritengono che Alighiero sia deceduto nel
1277 (cfr. per esempio FALLANI, Dante autobiografico, cit., p. 23). In
quell'anno, tra Alighiero degli Alighieri e Manetto dei Donati venne rogato
un atto notarile che attestava la dote da assegnare a Gemma quando si
sarebbe sposata con Dante (cfr. BARBI, Vita di Dante, Firenze, Sansoni
1961, p. 12); però io giudico inattendibile che l'atto sia stato
redatto in articulo mortis, essendo Alighiero moribondo. Probabilmente
la vera causa e la vera data di morte di Alighiero ci rimarranno sempre
ignote, se non si rinviene qualche altro documento originale che ce lo
riveli; ma è per me certo che dalla Tenzone si possa comunque dedurre
che il padre di Dante fosse già morto nell'estate del 1283, anche
se da non molto tempo e sicuramente non dal 1277. Infatti, poiché
Dante viene presentato come una specie di figliuol prodigo diciottenne
e siccome viene chiamato in causa suo padre defunto a dargli rimprovero,
bisogna ammettere che sarebbe stato affatto insensato da parte di Forese
colpire l'antagonista attraverso la menzione di un padre morto da oltre
un lustro. Soltanto la menzione di un padre morto recentemente avrebbe
sortito qualche effetto positivo, anzitutto per la vergogna che infonde
un rimprovero basato su tale evento luttuoso. Solo in questo caso le parole
di Forese avrebbero senso e utilità; come dire, insomma: «Non
ti vergogni di fare il crapulone e di darti alle baldorie danneggiando
i familiari («la Tana e 'l Francesco»), quando tuo padre è
ancora così fresco nella fossa, che ci si può quasi ancora
parlare passando per il cimitero?». Per tali suggerimenti metaforici,
e visto che nel Medioevo un periodo di lutto biennale era obbligo sociale
per un consanguineo, io credo che il secondo sonetto della Tenzone ci
autorizzi a piazzare il decesso di Alighiero verso la metà del
1282, sicché, non essendo ancora terminato il biennio di lutto
sul principio del 1284, il comportamento di Dante avrebbe potuto giustificare
il rimprovero di Alighiero nel punzecchiamento di Forese.
[6] Cfr. Nota 63. Appoggiandosi alla notizia del Villani, il critico E.GORRA
(Fra drammi e poemi, Milano 1900, pp. 119-21) pensò di poter vedere
nella processione col «segnore detto dell'Amore» il motivo
ispiratore della prima poesia di Vita Nuova, «A ciascun'alma»,
nella quale Dante parla similmente di un «segnor, cioè Amore».
[7] Questa interpretazione viene sostenuta da parecchi commentatori e
critici, anche tra i Moderni. Io però non trovo, nel contesto,
il lessico metaforico corroborante il motivo per cui si debba considerare
l'Avarizia come simbolismo secondario (o principale, o addirittura unico)
della Femmina Balba, la quale già col suo comportamento erotico
si dimostra 'prodiga' anziché 'avara'. Alla tenace tradizione esegetica
che vede Avarizia nella Femmina Balba non dev'essere estranea la convinzione
che Dante sia stato di pensiero più 'francescano' che 'benedettino'
e perciò ispirato dalla concezione teologica francescana, che considera
l'Avarizia come il principale peccato capitale, mentre invece la concezione
teologica benedettina (che è pure quella tomistica) offre tale
posto d'onore alla Superbia, basandosi ovviamente su Ecclesiastico X 13.
Ma nessun passo dantesco, dentro o fuori della Commedia, convalida una
siffatta tradizione esegetica: a mio avviso, Dante si è sempre
attenuto alla concezione benedettino-tomistica, e lo comprova la disposizione
stessa dei peccati purgatoriali. Né mi pare atta a cambiare le
cose l'ipotesi che l'Avarizia intesa da Dante possa riferirsi anche alla
cupidità di potere e di gloria (per esempio, nel caso di papa Adriano
V), come va proponendo qualche critico moderno (MURESU, Il richiamo dell'antica
strega, cit., pp. 26 sgg.): dal punto di vista simbologico, la Femmina
Balba / Dolce Serena non può convivere con nessuna specie di avarizia,
perché Dante le ha addossato una polarità di palese valore
opposto, consentaneo solamente ai tre peccati di essenza epicurea.
[8] Cfr. Convivio III xv 2.
[9] Non va taciuta la circostanza, secondo me intertestualmente suggeritiva,
che anche l'ex prodigo Stazio (un'altra controfigura parziale del Protagonista)
utilizzi la metafora delle «mani» (che nel suo caso sarebbero
state addirittura svolazzanti come «ali») per indicare appunto
un eccesso di prodigalità (Pg. XXII 43-5):
Allor m'accorsi che troppo aprir l'ali
potean le mani a spendere, e pente'mi
così di quel come de li altri mali.
E sicuramente non bisogna tralasciare di leggere pure Convivio III xv
11-4, dove Dante enumera le proprietà virtuose («bellezza»)
di una buona filosofia (si badi: una filosofia) servendosi di una metafora
costruita appunto sulle membra «debitamente ordinate» di una
figura umana.
[10] Il 'contrappasso' relativo ai Golosi ci viene suggerito da Dante
pure introducendo Forese, che in vita aveva fatto scorpacciate di 'petti
di starne' (secondo il terzo sonetto della Tenzone), però nell'Aldilà
è divenuto tutto magro e scolorito in viso, tanto che Dante lo
riconosce solo udendone la voce (Pg. XXIII 40 sgg.).
[11] Va ricordato che esiste discordia interpretativa circa il personaggio
che solleva la gonna della Femmina Balba: infatti taluni studiosi, come
il Flamini, pensano che l'azione sia della «donna santa e presta».
In verità, il contesto non è molto chiaro; però lo
diventa tuttavia, non appena si ragiona con logica e, direi pure, con
tatto: Dante non avrebbe mai fatto alzar la gonna di una «femmina
balba» da una «donna santa e presta».
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