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Cono A. Mangieri, Gentucca ... figlia spuria di Dante?

8. A questo punto, bisogna ulteriormente chiedersi se è attendibile che il nostro Dante, sposatosi con Gemma Donati dopo il 1290, [1] avesse nel 1308 un figlio maschio primogenito già così adulto e fededegno da poter essere chiamato esplicitamente, assieme - si badi - con un notaio lucchese, a fungere da testimone di un contratto notarile stipulato per conto di smaliziatissimi mercanti lucchesi e fiorentini, con di mezzo la bella somma di 762 lire e 10 soldi «bonorum denariorum lucensium», che di quei tempi bastava per comperare una cascina tra Lucca e Firenze. [2] Bisogna chiedersi come sia stato possibile che il figlio di un povero esiliato Bianco (e lascio anche nel mezzo se 'legittimo' o 'illegittimo') potesse essere accettato come teste dal rappresentante di una società di prestatori fiorentini, i Macci, i quali sicuramente badavano a non irritare le autorità civili palesando contatti con esiliati dell'altra fazione. Bisogna chiedersi, infine, come mai il puntiglioso Michele Barbi abbia potuto credere così velocemente nella probabilità che il documento lucchese stesse menzionando veramente un figlio del nostro Dante; e come mai tanti altri critici, tutti agguerriti dal punto di vista storico e razionale, abbiano potuto acconsentire. Laddove tutti sapevano (Barbi stesso ne compila un considerevole elenco, nel menzionato saggio) quanti Al(l)agherii, Al(l)egherii, Al(l)igherii, ecc., esistevano in Firenze e circondario, intorno alla data del 1308. Dante medesimo vedeva il proprio cognome scritto in molte maniere (sempreché si tratti in ogni caso del suo cognome), negli Atti e nelle Consulte del Comune Fiorentino.

Si sono negate le obiezioni con una serie di contro-obiezioni: se si proponeva di pensare a un 'Dante Alagherii' cambiatore (come in effetti suggerisce piuttosto il documento stesso), si rispondeva: ma chi lo comprova? Per comodità, si dimenticava che neppure il 'Dante Alagherii' menzionato nel documento lucchese offrisse comprovate indicazioni in direzione del nostro poeta. Come confessò il Barbi stesso, tutto è accaduto in una specie di «ansia», [3] o fors'anche in una specie di stordimento, come se la possibilità stessa avesse messo tutti in uno stato di choc, sicché, per non correre il rischio che anche il resto dei 'Dantes Alagherii' dovesse subire una disastrosa cernita (specie nelle Consulte...), si è finito con l'accettare Giovanni come figlio spurio del poeta, ma con un sacco di ragionamenti speciosi e sorvolando sul fatto che questo testimone avrebbe dovuto avere perlomeno venticinque anni d'età. [4] Il Barbi, che due anni più tardi avrebbe pubblicato un lungo saggio critico sulla Tenzone con Forese Donati, per poter dichiarare accettabile un figlio del poeta già così adulto nel 1308 si vide costretto ad affermare che, in fondo, in quella serie sonettistica «non c'è niente [...] che possa far credere a una vita comune dei due amici ed escluda la condizione di ammogliato per Dante». [5] Ma è davvero ragionevole credere che Forese, dinanzi a tanti provocanti insulti rivolti da Dante all'indirizzo suo e di sua moglie Nella, abbia invece voluto rispettare a tutti i costi l'eventuale moglie di Dante, evitando di rivolgere ad essa (pur considerando che fosse una cugina) ogni più piccola allusione metaforica o realistica ... ?

A mio giudizio, il nostro Dante non si è sposato tanto presto, né ha avuto già verso il 1283 un figlio chiamato Giovanni, legittimo o illegittimo che fosse, per quanto dispiaccia a coloro che si erano ormai abituati a vedere il terzetto 'apostolico' Giovanni-Pietro-Giacomo nella discendenza maschile del nostro poeta. Se legittimo, com'è che il suo nome non compare mai negli atti testamentari e nelle altre brighe notarili dei fratelli Pietro e Giacomo? In questi documenti compare bene, invece, il nome della sorella Antonia, che nel 1322 era già monaca in Ravenna da oltre quindici anni, col nome di suor Beatrice (stando al Boccaccio). Se si pensa davvero a un figlio illegittimo, poi, ci si deve chiedere come mai mercanti e finanche notai acconsentano non solo a pigliarselo come testimone, ma anche a circoscriverlo con una paternità non riconosciuta legalmente; ci si deve chiedere se è plausibile che specialmente il Bonaccurso, rappresentante fiorentino dei Macci, abbia potuto ignorare o far passare sotto silenzio il fatto che l'ancor minorenne Giovanni fosse per di più membro illegittimo di una famiglia Bianca scacciata da Firenze appena sei anni prima ed ancora invisa al Reggimento della città in cui aveva sede la società dei Macci; [6] ci si deve chiedere, infine, se si può credere che questo ragazzo sia potuto andare in giro per Val di Serchio e presentarsi a mercanti lucchesi e fiorentini come filius Dantis Alagherii de Florentia, senza che tale notizia giungesse mai nella vicina alleata Firenze, dove il buon Boccaccio avrebbe potuto facilmente reperirla durante le sue ricerche sulla vita, sulla famiglia e sulle amicizie del nostro poeta. Io non posso crederlo; e pertanto l'esistenza del figlio spurio chiamato Giovanni diventa ai miei occhi un grossolano abbaglio storico-interpretativo, sia nei riguardi dell'allegoria autobiografica dantesca sia nei riguardi dello stesso documento lucchese, che si riferisce evidentemente ad un altro Dantes Alagherii de Florentia, forse mercante o fors'anche cambiatore, ma comunque diverso dall'autore della Divina Commedia.

Quanto a Gentucca, se questa "femmina" (così la chiama Dante per bocca di Bonagiunta, per suggerirci che non sta riferendosi a un simbolo, bensì a una bambina di carne e ossa) [7] ha da un lato avuto la grande sfortuna di nascere illegittima, dunque privata del diritto di poter usufruire del cognome paterno, dall'altro lato ha avuto la grande fortuna di comparire - prescelta al posto degli stessi figli legittimi del poeta - nel cuore palpitante della Divina Commedia. A tal proposito, anzi, va qui rilevata una particolarità strutturale non ancora ben considerata dalla critica; ed è che l'autore menziona il nome di un proprio consanguineo in Inferno (Geri di Bello, XXIX 27) e in Paradiso (Cacciaguida, XV 135). Nel Purgatorio, però, noi non troveremmo nessun nome di consanguineo, se non lo vedessimo riprodotto appunto nell'ignota «Gentucca»: infatti nessun altro personaggio della cantica possiede i requisiti atti a generare già solo un sospetto in tal direzione.

Ma c'è di più, perché va notato che Cacciaguida ben si sofferma a parlare del figlio Alighiero, un bisnonno di Dante stazionato nel Purgatorio, però utilizza una perifrasi che consente al poeta di non menzionarne il nome proprio:

Quel da cui si dice

tua cognazione e che cent'anni e piùe

girato ha 'l monte in la prima cornice,

mio figlio fu e tuo bisavol fue. (Pd. XV 91-4)

Aggiungendo a questo fatto strano quello, in verità ancor più strano, che non si faccia motto di Alighiero nel primo o in qualche altro Girone purgatoriale, dove Dante Protagonista avrebbe sicuramente potuto, anzi, dovuto incontrarlo, noi ci sentiamo rafforzati nell'idea che l'intento recondito sia stato appunto di immettere il nome di un solo consanguineo in ogni cantica, per quanto ingiustificabile ai nostri occhi resti tale mossa strutturale. [8] Bisogna inoltre evidenziare che il poeta ci presenta sub rosa due linee consanguinee: una laterale (da Cacciaguida a Geri del Bello) ed una diretta (da Cacciaguida e Dante); la prima con un rappresentante finale morto senza discendenza e condannato all'inferno (Geri del Bello), la seconda con un rappresentante finale (Dante medesimo) che evita un analogo destino attraverso il perfezionamento moral-religioso portante in Eden ed attraverso quel ... mistero della generazione esplicato in Pg. XXV, canto che segue immediatamente quello in cui si fa menzione di «Gentucca».

E' senz'altro superficiale credere che l'arguto ed accurato genio poetico di Dante abbia immesso per puro caso una simile serie di relazioni concettuali, una siffatta concatenazione di eventi allegorico-autobiografici. Laddove non bisogna far passare sotto silenzio il fatto suggeritivo che in questi canti sia presente Forese Donati, cioè colui che Dante stesso aveva deriso e umiliato chiamandolo «figliuol di non so cui», nel quinto sonetto della Tenzone scritta, evidentemente, prima del proprio fattaccio con la madre di «Gentucca». Non v'ha per me dubbio che questo nome di donna appartenga a una figlia naturale illegittima del poeta, nata da una relazione amorosa di breve respiro (la Taglia contro Pisa durò 25 giorni...), ma proprio perciò considerabile come un atto di seduzione lussuriosa, che egli in seguito aveva deposto dalla propria coscienza di giovane epicureo scomparendo senza neppure rendersi noto, con grave danno sociale, morale e spirituale sia per la donna che per la futura figlia.

Le prove di questo suo disonorevole modo d'agire giovanile io le rinvengo appunto nel finalino di Pg. XXV, dove il poeta, non senza una lodabile intenzione autobiografica, immette tutti i suggerimenti validi a giustificare la mia illazione:

Appresso il fine ch'a quell'inno fassi,

gridavano alto: «VIRUM NON COGNOSCO»;

indi ricominciavan l'inno bassi.

Finitolo, anco gridavano: «Al bosco

si tenne Diana, ed Elice caccionne

che di Venere avea sentito il tòsco».

Indi al cantar tornavano; indi donne

gridavano e mariti che fuor casti

come virtute e matrimonio imponne.

E questo modo credo che lor basti

per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia:

con tal cura conviene e con tai pasti

che la piaga da sezzo si ricuscia. (vv. 127-39).

Dunque a Gentucca Dante ha concesso l'onore di rappresentare non solo la conseguenza del suo peccato di lussuria, ma anche il nome del consanguineo che altrimenti mancherebbe nella cantica centrale. E' forse stato perché Gentucca, essendo venuta al mondo già nel 1290, godeva il diritto di primogenitura rispetto a Pietro, Giacomo e Antonia, tutti nati in epoca posteriore e perciò passati sotto silenzio dal padre-poeta? E' forse stato un ringraziamento speciale del poeta per il fatto che questa figlia spuria gli abbia perdonato la lunga negligenza, rallegrandogli quindi il soggiorno lucchese fino a fargli piacere ( miracolo !) una intera città toscana? Oppure è forse stato un gesto tardivo di affetto e riconoscimento paterno, attraverso il quale Dante ha inteso, seppure «da sezzo», ricucire alla meno peggio la «piaga» causata dall'atto lussurioso giovanile ? Purtroppo non ci è dato di saperlo, né di congetturarlo responsabilmente in base agli scritti danteschi. L'unica constatazione che si può fare, a coronamento di questo articolo, è che il Dante della maturità, il Dante della perfezione edenica non si è mai più permesso di deridere i «figliuol di non so cui», come aveva fatto nei sonetti scambiati con Forese durante gli anni spensierati dell'adolescenza. Pertanto mi sembra veramente il caso di citare quel famoso motto latino degli Scolastici medioevali: Experientia docet. [9]

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[1] La data del matrimonio di Dante con Gemma è ignota, però taluni studiosi la pongono nel 1291. Quel che si sa con certezza, invece, è la data del 9 febbraio 1277 in cui i loro rispettivi padri, Alighiero e Manetto, stipularono il contratto notarile di 'fidanzamento', col quale si circoscriveva la dote che Gemma avrebbe portato nel futuro matrimonio. Questi contratti di fidanzamento potevano essere stipulati a partire dal dodicesimo anno d'età della fanciulla, e perciò talvolta precedevano di molti anni il matrimonio ecclesiastico: pertanto è attendibile che a tale data Gemma sia diventata dodicenne, circa quattro mesi prima di Dante.

[2] A p. 337 della succitata opera, il Barbi riporta documenti dell'epoca dantesca, dai quali si possono ricavare questi due esempi di valutazioni commerciali: nel primo caso, si diveniva padroni di 18 pecore, 4 agnelli, 4 capre e 1 montone con 25 lire e 2 soldi; nel secondo caso, si acquistavano 21 pecore ed 8 capre con 36 lire e 2 soldi.

[3] Cfr. BARBI, Problemi, cit., p. 347.

[4] In quell'epoca di legislazione giustiniana, in quasi tutta Italia, ma sicuramente a Lucca e a Firenze, i giovani al di sotto dei venticinque anni venivano esclusi da ogni operazione legale. Cfr. Institutiones XXIII: «Masculi quidem puberes et feminae potentes usque ad vicesimum quintum annum completum curatores accipiunt; quia licet puberes sint, adhuc tamen eius aetatis sunt, ut sua negotia tueri non possint». Di questa disposizione legislativa fa menzione anche Dante in Convivio IV xxiv 2. Va detto che talvolta il padre procedeva alla cosiddetta emancipatio dei giovani anche prima di quest'età legale, però ciò riguardava esclusivamente i figli legittimi (su quelli non legittimati non aveva alcun potere legale).

[5] Cfr. BARBI, Problemi, cit., p. 352.

[6] Bisogna ricordare che il Reggimento Nero di Firenze si prese la briga di continuare a perseguitare Dante e figli maschi fin oltre il 6 novembre 1315, data in cui venne emanata l'ultima condanna a morte in contumacia contro l'ex priore di parte Bianca, che allora si trovava probabilmente a Verona. I figli maschi legittimi di Dante (Giacomo e Pietro) poterono tornare in Firenze solo dopo la morte del padre, avvenuta il 13 settembre 1321.

[7] Si badi a questo interessante fattore cronologico: Gentucca dovrebbe essere nata a Lucca verso la fine di maggio del 1290 (ossia nove mesi dopo la Taglia dell'agosto precedente), e Dante ne pone il nome giusto sulle labbra di Buonagiunta da Lucca, deceduto appunto intorno al 1290-92. L'informazione dunque non è 'del senno di poi', bensì di prima mano.

[8] Va ovviamente tenuto conto del fatto che Moronto ed Eliseo, i fratelli di Cacciaguida menzionati in Pd. XV 136, non rientrano nella linea genealogica di Dante partente da Cacciaguida.

[9] Chiudendo l'articolo, debbo far rilevare che l'episodio globale inerente all'ignota madre di Gentucca, così come emerge dalla mia interpretazione, trova un inconfutabile pendant non solo nella vicenda di Elice, la ninfa costretta a vivere nascosta nei boschi per aver commesso coito con Giove (portata in esempio appunto nel succitato passo, Pg. XXV 131-3), ma pure in quella di Isifile, la giovinetta ingravidata e abbandonata da Giasone, il giovane eroe tessalo condannato da Dante all'inferno appunto per aver commesso questa brutta azione, durante la 'taglia' degli Argonauti per la conquista del Vello d'Oro (If. XVIII 83-99). Ora noi possiamo capire, leggendo Pg. XXX 136-8, che la traversata dell'Inferno serve per mostrare a Dante Protagonista non solo le colpe altrui, ma anche quelle (sette) personali, poi purgate durante la simbolica traversata del Purgatorio. Appare pertanto palese che Dante, creando tutti questi episodi, abbia avuto in mente meravigliose connessioni psicologico-allegoriche; specie se consideriamo ulteriormente che la storia di Isifile fa capolino anche in Pg. XXII 112 e XXVI 94-5: due canti che sembrano rispettivamente aprire e chiudere la parentesi 'generativa' dei canti XXIV e XXV. A loro volta, Giasone e la sua impresa giovanile trovano un'ultima menzione addirittura in chiusura del poema (Pd. XXXIII 95-6), in una terzina che a tutt'oggi rappresenta un vero e proprio enigma interpretativo. Onde mi sembra lecito concludere che anche Giasone sia una delle tante 'controfigure parziali' introdotte da Dante nel poema, allo scopo di far capire al mondo errante di aver commesso anch'egli la sua porzione di errori, ma di aver poi tuttavia trovato la volontà e la maniera di porvi rimedio. A ben guardare, mi pare che proprio in ciò si nasconda il principale messaggio didascalico della Commedia.

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