Licinio, Raffaele, Castelli medievali. Puglia e Basilicata: dai Normanni a Federico II e Carlo I d'Angiò , presentazione di Giosuè Musca, Bari, Dedalo, 1994, pp. 368. Il volume di Licinio, docente di Istituzioni medievali presso l'Università di Bari e studioso di temi di storia dell'agricoltura, del territorio e delle istituzioni nel Mezzogiorno medievale, è un'attenta e documentata ricostruzione delle vicende del rapporto fra castelli, poteri politici e società locali, in un ambito geografico molto vasto (Puglia e Basilicata), che nel corso dell'indagine funge da zona- campione su cui evidenziare fenomeni riguardanti tutto il Mezzogiorno, ma ha anche un valore geografico e storico autonomo, di territorio articolato in sottoregioni, caratterizzate da linee di evoluzione collegate e distinte. Dopo un breve quadro della situazione fra IX e XI secolo, l'autore passa subito alla trattazione della conquista normanna, che costituì una novità radicale sul piano dell'insediamento, a causa dei suoi ritmi e delle sue modalità. I Normanni si muovevano per gruppi parentali che, nell'ambito del movimento più generale di conquista, prendevano ciascuno possesso di un territorio relativamente ristretto. In questi ambiti le fortificazioni (spesso costruite per l'occasione) erano, oltre che mezzi di difesa, anche strumenti per il controllo delle popolazioni locali, alle quali venivano imposti obblighi concreti, secondo il costume feudale. La capillare penetrazione nell'Italia meridionale della prima generazione normanna portò così alla costituzione di una rete di fortificazioni omogenea, che copriva tutto il territorio (e non solo le aree militarmente più esposte, come in passato), con funzioni di controllo, oltre che di difesa. Per usare le parole dello stesso Licinio, all'incastellamento "militare-politico" di principati longobardi e temi bizantini, si sostituiva un incastellamento "militare-feudale" (p. 56). La conquista normanna portò anche a un cambiamento nella struttura materiale delle fortificazioni: da una maggiore attenzione per le cinte urbane, si passò alla costruzione di castelli, spesso collocati in un'area periferica (però quasi mai ai margini) dell'abitato urbano. Si trattava di un mutamento dettato dalla necessità di avere un punto forte, che consentisse il controllo delle comunità cittadine, spesso recalcitranti al nuovo dominio. Le strutture fortificate si diffusero uniformemente; la funzione di difesa si coniugò con quella di controllo. Erano poste le premesse indispensabili alla creazione di un sistema castellare, che poté compiersi soltanto con la nascita di un organismo statale unitario, ad opera di Ruggero II. Da questo momento in poi, il filo rosso dell'analisi di Licinio è nel rapporto, ora più, ora meno conflittuale, fra le città, con le loro dinamiche sociali, e la rete castellare, rappresentante di un potere centrale, ostile a ogni movimento potenzialmente centrifugo. Nel secondo capitolo l'autore illustra, attraverso il caso particolare di Bari, ma con opportuni rimandi alla situazione delle altre località, la lunga fase di gestazione del nuovo equilibrio, fra le tumultuose resistenze delle comunità urbane all'imposizione del castello e le reazioni, spesso violente, del potere centrale. La ricostruzione dettagliata dei fatti porta a concludere, al di là del caso specifico, che il successo definitivo dei Normanni divenne possibile solo nel momento in cui furono realizzati due presupposti: da un lato, la definizione di una precisa identità urbana; dall'altro, la compiuta affermazione di un organismo statale dalle forti capacità di centralizzazione, con Ruggero II e i suoi successori (p. 73). Solo in quel momento l'oscillazione nella dialettica città-castello si arrestò, a tutto vantaggio del castello; e solo allora poté iniziare un autentico processo di integrazione fra fortezza e città, come pure la definizione di un'amministrazione specializzata. Fattori, questi, che furono la prima base degli sviluppi di XIII secolo. La documentazione, più abbondante ed articolata, già per il periodo svevo (oggetto del terzo capitolo) consente di cogliere le linee complessive di evoluzione della rete castrale, la sua articolazione interna e le funzioni della sua burocrazia. Oltre che dalle ormai consuete funzioni militari di controllo e difesa, il sistema federiciano era però caratterizzato da un legame più stretto con il territorio, anche a fini di produzione e di popolamento. Proprio qui sta "lo scarto in avanti, il salto di qualità rispetto all'esperienza castellare normanna" (p. 149), che porta a "un organico progetto di organizzazione, gestione e utilizzo del territorio. Meglio: di governo del territorio" (p. 150). Nel complesso, le strutture fortificate erano di due specie, distinte sia per tipologia, sia per funzione. I castra erano le classiche fortezze militari; le domus , dalla fisionomia architettonica più complessa, erano residenze fortificate destinate spesso agli svaghi della caccia e collocate nelle dirette vicinanze di strutture produttive del demanio, come masserie, foreste, casali, scuderie, a scopo di coordinamento e di protezione. Orbene, Licinio mostra come nelle varie circoscrizioni il rapporto fra castra e domus fosse variabile: mentre in Capitanata e in Basilicata, laddove il sistema castrale aveva legami più stretti con la rete produttiva, il rapporto castra/domus era rispettivamente 1/1 e 2/1, in Terra di Bari, dove le fortificazioni erano prevalentemente disposte a protezione dei più importanti centri portuali, il rapporto èdi 4/1, per arrivare a 7/1 in Terra d'Otranto. Si trattava di un sistema differenziato, secondo la preponderanza specifica, all'interno di ogni singola circoscrizione, di un aspetto sugli altri, rimanendo immutata la funzionalità complessiva. Le forti differenze locali erano bilanciate dalla compattezza dell'apparato burocratico. Il provisor castrorum (provveditore) era la figura eminente nell'amministrazione: tenuto ad informare costantemente la corte delle spese, era responsabile della retribuzione delle guarnigioni, della manutenzione e dell'approvvigionamento per i castelli di una o più circoscrizioni. Fuori dalle sue competenze rimanevano invece le nomine dei castellani e del personale minore, prerogativa dell'amministrazione centrale. I compiti del provveditore erano distinti da quelli di polizia del giustiziere, l'impiego delle guarnigioni castrali al di fuori dei castelli stessi era regolata da disposizioni molto rigide e gli obblighi di manutenzione di ogni edificio erano ripartiti fra diverse comunità, secondo un criterio che non teneva quasi mai conto delle distanze o dei collegamenti stradali. Tutta l'organizzazione era centrata su due criteri: da un lato, ottenere il maggior grado di accentramento possibile, soprattutto riguardo alla gestione militare; dall'altro, separare nettamente il castello dalla città, in modo da impedire pericolose commistioni di interessi. L'apparato burocratico era dunque la cerniera fra la corte e le periferie, dando unità a un complesso sistema polifunzionale e, nel contempo, garantendo l'integrità del demanio da possibili colpi di mano di forze centrifughe. Sotto il regno di Carlo I d'Angiò (oggetto del quarto capitolo), l'introduzione di un regime feudale, sul modello della monarchia francese, portò a cambiamenti nella società e nell'ordinamento dello stato, che ebbero forti conseguenze anche sul sistema castellare. Mentre nel periodo federiciano il controllo del sovrano sulle fortezze demaniali era stato assoluto, già nel primo periodo angioino, e sempre più in seguito, il sistema castellare pubblico fu intaccato da concessioni feudali ai baroni. I provveditori esercitavano le proprie funzioni su un numero variabile di castelli, a causa sia degli infeudamenti, sia delle strutture riconquistate agli avversari. Parallelamente però, proprio per contrastare le forze locali in ascesa, si venivano ulteriormente articolando i meccanismi volti ad impedire la formazione di potentati territoriali. Già dall'inizio della dominazione angioina, era stato stabilito per legge che i castellani, come i provisores , fossero tutti di nazionalità francese. Nel 1277, nell'ambito di una riforma generale dell'amministrazione, venne accentrato il sistema di retribuzione, con un provvedimento che toglieva potere ai funzionari periferici. La rotazione costante degli incarichi divenne prassi comune, che consentiva al potere centrale di evitare il radicamento dei poteri e nel contempo di soddisfare le richieste di onori feudali. La situazione di tensione sociale nel regno potenziava anche le mansioni repressive degli impianti castrali. Nonostante le severe normative che proibivano alle guarnigioni di castello di intromettersi nelle vicende delle città, era lo stesso potere centrale a servirsene sempre più spesso per compiti di polizia. E quasi ovunque le fortezze divennero anche prigioni. Soprattutto nei primi anni del dominio angioino, le lotte politiche ancora violente diedero forte impulso alla funzione carceraria, insieme con lo zelo inquisitoriale promosso dal sovrano e la disonestà o l'inefficienza degli amministratori pubblici. Sfruttando l'abbondante documentazione, Licinio indica con dovizia di particolari i compiti di funzionari maggiori e minori e le variazioni di peso strategico dei diversi castelli, in relazione a situazioni particolari, sulla base della carica ricoperta dai castellani (miles o scutifer) , o del numero dei componenti la guarnigione; delinea il complesso sistema di approvvigionamento, che faceva capo ai provisores e impegnava un gran numero di funzionari minori, con esiti soddisfacenti, nonostante non infrequenti irregolarità e difficoltà pratiche notevoli. Il precario equilibrio su cui si reggeva l'intero edificio, fra forze baronali e corona, fu compromesso in un processo di lunga durata, in cui una parte non trascurabile fu giocata dai funesti effetti finanziari della guerra del Vespro sull'amministrazione, sempre più onerosa, della rete castellare. Al termine dell'evoluzione, la periferia ha preso il sopravvento. Il rapporto fra città e castello, a lungo favorevole a quest'ultimo, si èrovesciato. Il lavoro di Licinio èsorretto da una complessa partitura. Il tema centrale del confronto fra centro e periferia attraverso il ruolo delle fortificazioni, muta nel corso del libro, adeguandosi alle trasformazioni politiche e al carattere della documentazione. Nel periodo prenormanno e nel primo periodo normanno è difficile separare nettamente centro e periferia. La Puglia era la sede dell'amministrazione bizantina; per il primo periodo della conquista normanna èdifficile parlare a ragione di centri e periferie, con una situazione fluida e un potere che ès" centrale, nel senso che ad esso sono subordinati poteri minori, ma non ha una sede stabile, proteso com'èverso una conquista non ancora conclusa. Nella prima fase della trattazione, la dimensione della storia locale coincide con se stessa, nel senso che non esiste ancora un potere lontano e separato, da cui possa dipendere una periferia. E allora, i riflessi dell'azione del potere "centrale" vanno cercati nella documentazione locale e questo determina, dal punto di vista documentario e non solo storico, una prevalenza delle città, della storia locale su quella del potere centrale, ancora in formazione. Nel momento in cui il regno normanno viene fondato, la prospettiva cambia completamente: la storia locale diventa storia di una periferia, rispetto a un centro fisico, sede del potere del re. Per l'età sveva, che èil cuore del libro, la prospettiva locale e quella centrale si mantengono in equilibrio ed èpossibile seguire le interferenze del centro con la periferia e viceversa. La crescita della massa documentaria rende più lontana la prospettiva, e non assistiamo più a contrasti fra singole città ed il sovrano; sono le regioni ad assumere maggiore importanza, in relazione alla funzione che ricoprono nell'edificio complessivo. A questo punto, al di là anche degli sviluppi politici, che in epoca angioina condussero ad una nuova prevalenza della dimensione locale, sia pure in altra forma, al di là degli sviluppi politici, dicevo, la dimensione del potere centrale diviene assolutamente preminente, per un problema squisitamente documentario: la massa di testimonianze locali aumenta, parallelamente a quella dei documenti pubblici. Il ricercatore ècosì costretto a scegliere (ed èuna scelta obbligata) fra polverizzare la propria attenzione su una quantità di situazioni locali, troppo numerose e ben documentate per poter essere seguite singolarmente, oppure orientarsi decisamente sul centro monarchico. A questo punto, e solo a questo punto, la storia locale diviene un espediente per seguire più in particolare sviluppi generali. In questa evoluzione interna, nel contrappunto fra prospettiva interpretativa e scelta delle fonti, ci pare risieda il motivo di interesse maggiore del volume, peraltro ricchissimo di informazioni e spunti, facilmente accessibili anche attraverso i dettagliati indici. Vito Loré |