Studi
di antiquaria ed epigrafia per Ada Rita Gunnella,
a c. di Concetta Bianca – Gabriella Capecchi – Paolo Desideri,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009 (Libri, Carte, Immagini,
2), pp. IX+ 283, rec. di Elena Necchi
Sono di recente usciti gli Studi di antiquaria ed epigrafia per Ada
Rita Gunnella, volume di tredici saggi che arricchisce i contributi
raccolti in occasione del Seminario in ricordo di Ada Rita Gunnella.
L'epigrafia latina tra Umanesimo e Rinascimen to, svoltosi il 28 ottobre
2003 presso il Dipartimento di Studi sul Medioevo e Rinascimento dell'Università
degli Studi di Firenze. L'arco cronologico preso in esame spazia dall'Antichità
al Rinascimento.
A pp. 1 – 12 troviamo il contributo di Luciano Agostiniani, L'alfabetario
etrusco di Perugia. Lo studioso enuncia i risultati dell'esame autoptico
che ha interessato un alfabetario etrusco datato al VI sec. a. C., ora
conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Perugia, un unicum
nel panorama delle iscrizioni di questo tipo. In modo particolare si prendono
in considerazione due elementi a prima vista scollegati: la struttura
del tutto inusitata della lettera beta nella parola abat
che segue la serie alfabetica e la collocazione della parola medesima.
In mancanza di casi analoghi nell'epigrafia greca e latina, la ricostruzione
delle cause di tali particolarità risulta alquanto complicata.
Giovanni Alberto Cecconi, in Fratelli nell'epigrafia latina di età
romana imperiale (pp. 13 – 29) prende in esame quattro iscrizioni,
discutendone la cronologia e mettendone in risalto il loro valore di testimonianza
dei rapporti di natura socio – familiare intercorsi fra i personaggi
in questione: sono le epigrafi dei gemelli Rodone e Rodino (CIL VI 8434
= ILS 1523), l'epitaffio dei fratelli Valerii del Palazzo Ducale di Urbino
( CIL XI 6168 = ILS 9075 = ILCV 449), l'epigrafe con dedica per Elena
Augusta e i suoi nipoti (CIL X 517 = ILS 708), e le iscrizioni per i fratres
notabili di Otricoli (CIL XI 4095 = ILS 5696, CIL XI 4097 = ILS 5697),
CIL XI, 4096).
Occisus a malibus di Vito Panciera (pp. 31-37) aggiunge una testimonianza
al dossier epigrafico di Ada Rita Gunnella relativo al tema delle morti
improvvise nel mondo romano: il testo è inciso su di una tabella
marmorea proveniente dal mercato antiquario di Civitavecchia, conservata,
a partire dall'Ottocento, presso il Louvre di Parigi (=ILCV, I, 2 = CIL,
XI, part. II, fasc. II, 7586). L'epigrafe, impropriamente ritenuta cristiana
da alcuni autori, avrebbe come terminus post quem la fine del
secolo III. L'autore, riepilogando le varie interpretazioni proposte per
l'indicazione occisus a malibus in riferimento alla scomparsa
di un certo Erclanio, avanza la proposta di una morte violenta: il sintagma
a malibus potrebbe essere il risultato non solo della confusione
di declinazione, fenomeno del quale si citano altri esempi, ma anche l'associazione,
sia pure a livello mentale, con la parola hominibus, che forse
completava l'iscrizione.
Giovanni Uggeri, in Testimonianze di romanitas esibite nella cattedrale
di Ferrara ( pp. 39-54), esamina otto pezzi scultorei romani riutilizzati,
nell'erezione della cattedrale romanica di Ferrara, la cui edificazione
iniziò nel 1135: ai tre esempi già noti per intero o in
parte agli umanisti se ne aggiungono altri cinque. Tali reperti testimoniano
la pratica del reimpiego, che, nelle costruzioni romaniche, rispondeva
sia a un'esigenza economica che a una precisa operazione culturale, come
spia di una sorta di preumanesimo ante litteram, contrastante
con i vari esempi di epurazione o travestimento cristiano così
diffusi in epoca medievale. Ferrara non sorgeva su di un sito romano,
per cui, con molta probabilità, i materiali scultorei di riutilizzo
provenivano da Voghenza o dalla vecchia capitale Ravenna.
Il volume prosegue con L'epigrafia medievale di Ferrara e del suo
territorio di Stella Patitucci (pp. 55-71) Lo studio intende recare
un primo contributo all'epigrafia medievale di Ferrara e dintorni. Per
il capoluogo si prende in considerazione la cattedrale, con le iscrizioni
di Niccolò, sul portale centrale, gli Statuti comunali del 1173,
incisi su blocchi di marmo e pietra d'Istria posti lungo il fianco meridionale
dell'edificio, e infine la Bolla di papa Bonifacio IX, sulla facciata.
Per Voghenza si citano il sarcofago di San Leo presso la chiesa omonima
e le valve di ambone ora conservati presso il Museo della Cattedrale di
Ferrara nella ex chiesa di San Romano, provenienti con buona probabilità
dalla chiesa plebana di Santa Maria. Per Comacchio si portano ad esempio
un'epigrafe greca di marmo di Proconneso ora al Museo Arcivescovile di
Ravenna e altri due pezzi custoditi presso la cattedrale: l'epigrafe marmorea
di Vincenzo (sacrestia) e il sarcofago di Stefano, in pietra d' Istria.
Passando a Pomposa, l'autrice si sofferma sull'epigrafe marmorea di Mazulo,
murata sulla facciata destra dell'atrio e sull'iscrizione del campanile.
Infine, di Argenta viene ricordata l'iscrizione del portale marmoreo della
pieve di San Giorgio.
Stefano Zamponi, in Epigrafi di tradizione antiquaria nel Castello
del Buonconsiglio di Trento (pp. 73-85), discute la datazione dell'epigrafe
recante il motto delfico incisa su una fascia di pietra chiara che circonda
uno specchio di singolare fattura collocato al piano alto del Castelvecchio
all'interno del Castello del Buonconsiglio di Trento, in corrispondenza
della cosiddetta loggia veneziana. A un recente studio che propone una
datazione dal secondo al quarto decennio del Cinquecento, all'epoca dell'episcopato
di Bernardo Cles, lo studioso riporta il manufatto ai gusti antiquari
del vescovo Johannes Hinderbach (1465-1486), il quale sembra avere risentito
del fervore di rinascita dell'antico promossa, fra gli altri, dall'umanista
Felice Feliciano, il quale trovò protezione a Trento fra il 1474
e il 1475.
Il contributo di Vincenzo Saladino Postille laurenziane: i due
Marsia, la testa bronzea di cavallo e lo “Scipione” di Diomede
Carafa ( pp. 87-106) si propone di aggiungere alcune osservazioni al dibattito
su alcune sculture appartenute a Lorenzo il Magnifico, in parte antiche
o ispirate all'antico: le due statue di Marsia, una testa di cavallo in
bronzo donata dal Magnifico a Domenico Carafa e un ritratto di Scipione
che il Vasari avrebbe recato da Napoli. I pezzi presi in esame sono testimonianze
del collezionismo laurenziano, sul quale sono ancora in corso ricerche.
Giacomo Mazzocchi e gli Epigrammata antiquae urbis di Concetta
Bianca (pp. 107- 116) si concentra sulla figura dell'autore della raccolta
epigrafica finita a stampare a Roma nel 1521. Sulla base delle note e
delle postille leggibili in alcuni esemplari, gli Epigrammata
si qualificano come il risultato della collaborazione e della consulenza
di parecchi antiquari romani, fra i quali, oltre al Mazzocchi medesimo,
Mario Maffei, cui l'opera è dedicata, Antonio Lelo, Angelo Colocci
e altre figure legate al gruppo dei poeti della Coryciana . Inoltre l'edizione
del Mazzocchi costituisce il testo base sul quale successivamente si affineranno
gli strumenti della ricerca epigrafica e antiquaria.
Heikki Solin, in La raccolta epigrafica di Rodolfo Pio (pp. 117
– 152), propone un censimento delle epigrafi raccolte dal cardinale
Rodolfo Pio a partire con molta probabilità dal 1537, quando si
trasferì a Roma dopo un periodo trascorso in Francia e prese dimora
presso il palazzo sulla via dei Prefetti e, più tardi, alla villa
sul Quirinale. Il confronto fra le descrizioni cinquecentesche di Ulisse
Aldovrandi, i quattro inventari della Biblioteca Ambrosiana e i riferimenti
contenuti nelle raccolte di vati autori coevi consentono l'identificazione
di trecentonovantaquattro iscrizioni legate, direttamente o indirettamente,
all'attività antiquaria del Pio, nel quale, pur non mancando interessi
storici, prevalse comunque la figura del collezionista di epigrafi e antichità.
Maria Pia Marchese, in Il manoscritto A. 1212 della Biblioteca dell'Archiginnasio
di Bologna: Le iscrizioni (pp. 153 – 165), esamina una raccolta
manoscritta includente iscrizioni e immagini, il cui nucleo principale
fu assemblato verso la fine del Cinquecento probabilmente in ambito bolognese,
con aggiunte successive fino al XVIII secolo. La silloge, che comprende
una consistente raccolta di epigrafi latine, la series Romanorum imperatorum
fino a Rodolfo II, la series dei papi fino a Clemente IX e una
cospicua serie di immagini, risulta descritta, per la parte più
antica, da tre repertori a stampa, delle quali testimonia la diffusione
anche al di fuori della Germania: le Inscriptiones di Apianus e Amantius,
le Imperatorum imagines di Goltius e i Monumenta di
Rybisch e Fendt.
Prosegue la disquisizione intorno al manoscritto bolognese Gabriella Capecchi
con Il manoscritto A. 1212 della Biblioteca dell'Archiginnasio di
Bologna: Le immagini (pp. 166-190), la quale si propone di fornire
un'immagine almeno complessiva dell'apparato iconografico del codice,
traendone la possibilità di formulare qualche ipotesi di lavoro.
Il manoscritto si presenta più come uno zibaldone di amateurs che
come una raccolta organica, e le immagini appaiono funzionali al testi
epigrafico. Il nucleo risalente al primitivo assemblaggio tra fine Cinquecento
e primi Seicento dipende da tre repertori a stampa di area tedesca (Apianus
e Amantius, Goltzius e Rybisch e Fendt). La loro circolazione bolognese
potrebbe essere spigata con le presenze germaniche in città, quali
Paulus Praum, mercante di seta e collezionista di Norimberga. Nel suo
insieme la silloge rimanda auna circolazione fra dotti, in riferimento
a una sorta di piccolo collezionismo grafico, eco del collezionismo maggiore
allora in auge. Segue la riproduzione di un nutrito numero di tavole con
i disegni del manoscritto.
Il contributo di Maria Antonietta Giua Valerio Chimentelli (1620 –
1669), antiquario fiorentino, professore di greco all'Università
di Pisa sotto Ferdinando II de' Medici (pp. 191-222) presenta una
ricostruzione della figura dell'erudito e docente fiorentino, chiamato
presso lo Studio pisano dal 1648 al 1669, anno della morte, con riferimento
all'opera a stampa, il Marmor Pisanum, e ai numerosi appunti
relativi a studi antiquari e lezioni universitarie, tramandati in forma
manoscritta. Ne emerge la figura di uno studioso e cultore di antichità,
nonché profondo conoscitore delle lingue ebraica, greca e latina,
legato all'università medicea, la quale, almeno fino a Cosimo III,
potè sottrarsi al clima controriformista allora imperante in Italia,
con ampie aperture verso gli apporti metodologici provenienti dai più
fervidi circoli culturali operanti sia in ambito italiano sia, soprattutto,
in area protestante.
Chiude il volume Paolo Desideri, con L'Italia di Giuseppe Micali e
la cultura fiorentina del primo Ottocento (pp. 223-266), relativa
alla ricezione ottocentesca dell' Italia avanti il dominio dei Romani,
opera del livornese Giuseppe Micali pubblicata nel 1810. Se il testo venne
criticato dagli eruditi contemporanei, tanto che l'autore non venne ammesso
nel «collegio dei compilatori» dell' « Archivio Storico»
fondato nel 1841, in effetti esso merita di essere valutato per la sua
attualità relativamente all'epoca che lo vide nascere. Contiene
infatti l'esaltazione dei valori repubblicani, ai quali il Micali aveva
senza dubbio aderito grazie alla conoscenza degli ideali della Rivoluzione
francese da poco conclusasi.
Elena Necchi
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