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Il Medioevo. Castelli, mercanti, poeti, a cura di Umberto Eco, Encyclomedia Publishers, Milano 2011. Recensione di Giuseppe Ligato

L’opera curata da Umberto Eco e dedicata al medioevo affronta in questo volume la civiltà dei secoli XIII-XIV (Il Medioevo. Castelli, mercanti, poeti, Encyclomedia Publishers, Milano 2011, € 49,00), mostrando particolare attenzione per le connessioni con le epoche successive e privilegiando i fattori di transizione. La trattazione, articolata in oltre 160 saggi di vari autori, affronta il proprio tema partendo dall’espansione europea introdotta dalle crociate in Medio Oriente, dalla Reconquista nella penisola iberica e dalla dilatazione delle frontiere della Cristianità in Europa orientale. Non si tratta naturalmente di un osservatorio “coloniale”, per quanto la convinzione che al di fuori della Cristianità regnasse la barbarie non fosse affatto assente; si deve piuttosto vedere, nella scelta del punto di vista di un’Europa in espansione, la volontà di esaminare il periodo in oggetto come una fase di movimento, spostamenti e mutazioni in ogni campo: commerci, urbanizzazione e guerre d’espansione dominano pertanto nei saggi iniziali, dando un’impronta all’intera raccolta. Il tema generale dell’opera è insomma la rottura con il passato (o anche una transizione meno conflittuale), per esempio quando si evidenzia, della sconfitta di re Giovanni Senza Terra, la fine del suo tentativo di ripristinare la monarchia teocratica, versione “nazionale” della crisi dei due massimi poteri centrali ossia impero e papato; o anche nella visione dello Scisma d’Occidente inteso come la fine dell’universalismo sotto l’aspetto ecclesiastico; oppure ancora, nell’ingresso delle autonomie locali nell’identità europea, con l’influenza esercitata dalle città norditaliane su quelle elvetiche, il cui ambito non era dunque solo quello dei cantoni e delle convenzioni conseguenti. Ecco poi Vincenzo di Beauvais che sottrae il lavoro alla condizione di punizione per l’uomo (anche previo riscatto delle arti meccaniche). Ma le innovazioni non trascuravano sempre i privilegi acquisiti, che rimanevano ben saldi operando quale fattore di rallentamento nella crescita dell’Europa: se infatti i poteri dei signori si affermarono a spese del Comune, di quest’ultimo mantenevano il sistema delle corporazioni e non solo (talvolta) l’assetto statutario, mentre un altro aspetto rimasto penosamente immobile fu lo sfruttamento dei ceti inferiori anche quando i poteri pubblici occupavano spazi precedentemente monopolizzati dalle aristocrazie.

Poiché non c’è innovazione senza influenza, diventa strategico il quadro del sapere e della sua diffusione, dove non sorprende di vedere valorizzata la monarchia normanna di Sicilia in cui il trilinguismo (latino, greco e arabo) rivaleggia, nel campo delle traduzioni delle opere greche classiche passate attraverso la mediazione araba, con la Spagna (altrettanto vitale ma ancora priva di una monarchia e di un’amministrazione uniche e centralizzate); l’Italia meridionale è dunque un esempio del medioevo inteso come laboratorio di iniziative in tutti i campi, per quanto privo dell’esperienza comunale che più a nord permetteva sperimentazioni politiche e culturali anche più ardite. Ma la nuova geometria del sapere dà origine  a un quadro – qui come altrove – pieno di contrasti: se infatti alcune innovazioni strettamente tecniche quali gru, occhiali e bussola non incontrarono resistenze particolari e nell’istruzione si assiste al superamento del canone carolingio di pochi libri e poche scuole dal prestigio esclusivamente locale, a vantaggio di una cultura più vasta e articolata, affrontata in modo più sistematico e diffusa da centri sempre più autorevoli in Europa, d’altra parte le istituzioni ecclesiastiche intuirono la minaccia dell’aristotelismo, che per l’intransigente arcivescovo di Parigi rendeva sospetto perfino san Tommaso d’Aquino. La nuova filosofia, favorendo il rapido raggiungimento del controverso confine tra fede e ragione, destava allarme per il proprio approccio alle questioni naturali sempre più svincolato dalla teologia, con la conseguenza – fra le altre – di suggerire un esame naturalistico dei miracoli raccontati dalla Sacra Scrittura; si cercava allora una concordia fra le due tecniche di ricerca, come quando si giungeva a fissare sì la falsità delle teorie naturalistiche a vantaggio delle verità rivelate, ma riconoscendo al naturalismo una base logica seria e degna, quindi accettabile, e rendendo quindi inevitabile il contrasto. Non poteva succedere alcunché di diverso, essendo quella aristotelica una filosofia che era giunta a fare della ricerca intellettuale la forma suprema di felicità, in aperta e inevitabile opposizione all’etica cristiana che condannava il carattere inevitabilmente elitario di una simile impostazione. Questa diffidenza verso le forme eterodosse del sapere non era che l’applicazione del più generale rifiuto della vana curiositas, a cui il sapere istituzionale si opponeva partendo dall’insegnamento paolino e dalla convinzione che la Bibbia fosse l’unico testo necessario e sufficiente, che esigeva conformità a se stesso – anche in quanto chiave per l’interpretazione del mondo – e che imponeva la subalternità di qualsiasi sapere esterno a esso. Ecco quindi le condanne dei testi aristotelici più compromettenti, soprattutto quelli dedicati alla natura e contrastanti con l’asservimento della filosofia alla teologia (un atteggiamento di rifiuto che avrebbe colpito anche la Monarchia dantesca), almeno fino a quando Alberto Magno non avrebbe introdotto una vera filosofia della natura; a differenza di san Tommaso, il quale avrebbe invece applicato i nuovi metodi a una filosofia meno dirompente nei riguardi dell’ortodossia. Non meno insidiosi per i saperi istituzionali i contributi arabi nel campo matematico-ottico-astronomico, soprattutto nel contrasto con il retaggio tolemaico, non senza una sana sintesi che induceva a non porre eccessivo spazio tra la teoria scientifica e l’osservazione diretta; e qui si fa notare che l’opposizione all’avanzata della scienza moderna veniva in qualche caso dalle menti migliori o comunque tutt’altro che retrograde, come per esempio Ruggero Bacone che, pur rappresentando l’affermazione della verifica sperimentale, non intendeva separare la medicina dall’astrologia. Ma stava comunque affermandosi il principio generale: sempre meno “verità” sarebbero state accettate senza un esame critico, e anche la cultura aristotelica sarebbe stata sottoposta a un vaglio che ne avrebbe dimostrato alla fine la relativa l’inadeguatezza, per esempio nella fisica e nella meccanica; un altro segno del passaggio nel mondo moderno fu il dilemma sull’alchimia intesa come trasformazione delle sostanze naturali, una questione attuale per chiunque rifletta sul contrasto fra la possibilità tecnica di applicare certe innovazioni e l’imperativo morale di escluderle o almeno limitarle, se incompatibili con la dignità umana. Un passaggio non incontrastato: Cecco d’Ascoli pagò con il rogo l’interesse per l’alchimia e l’astrologia, praticate senza eccessivo riguardo verso un’ortodossia più che mai guardinga nella sorveglianza di certi confini.

Nel campo delle conoscenze geografiche, la sperimentazione e l’osservazione diretta sono rappresentate da Marco Polo a cui però si contrapponeva, con i bizzarri e mai del tutto spiegati viaggi di Giovanni di Mandeville, un medioevo ancora interessato alle sirene dell’esotismo più fantasioso; ma persino il preumanesimo di Petrarca e Boccaccio apprezzava un più attento studio della toponomastica classica, un altro modo per superare la vaghezza di tante delle conoscenze acquisite in precedenza. Naturalmente, la riscoperta del passato classico batteva anche altre e meno “tecniche” strade, le quali avrebbero condotto all’apprezzamento di una grandezza la cui convivenza con i valori cristiani non avrebbe più avuto i difetti della conflittualità, uscendo anche dall’angusto ambito dell’otium solitario dei rari eruditi dei secoli precedenti; un superamento di cui fu artefice ancora una volta Petrarca, con la definizione da lui data dell’intellettuale letterato, che rivendica il proprio ruolo nella gerarchia del sapere. Una letteratura non esclusivamente speculativa, dunque, che non si sottraeva all’azione politica visto che nelle città più attive e consapevoli la memoria collettiva era coltivata mediante una storiografia non più semplicemente annalistica; mentre uomini come Brunetto Latini dimostravano l’importanza della retorica civile e dell’applicazione più sistematica del sapere alla scienza del governo. Si faceva “esploratrice” anche la spiritualità, grazie anche ai volgarizzamenti: gli Ordini Mendicanti, la cui urbanizzazione è un altro aspetto dello sviluppo urbano, insistevano su una predicazione che stimolava anche un’inedita partecipazione delle donne alla vita della Chiesa. La loro spiritualità si sviluppava anche lungo itinerari mistici persino estremi, nella ricerca dell’unione dell’anima a Dio; in campo maschile, solo Jacopone da Todi si spinse a livelli simili con la sua teoria dell’esperienza mistica che si serve della corporeità per congiungersi a Dio, ma Angela da Foligno giunse ancora oltre nella propria ricerca dell’estremo rapimento in Dio.

In letteratura, l’accresciuta disponibilità di parlate volgari consentì esperimenti plurilinguistici come quelli di Rambaldo de Vaqueiras, insieme all’adozione degli idiomi ritenuti più e intensi nei vari generi letterari, anche se di provenienza straniera come nel caso del successo dei trovatori provenzali, “motore” delle letterature in volgare soprattutto in Italia; la poesia in volgare diventava così un mezzo espressivo internazionale, al quale accedevano anche notai e funzionari amministrativi, mentre il desiderio di conoscenza sviluppava la letteratura didattico-enciclopedica (più moderna, in quanto adatta all’applicazione in tutti i settori del sapere) e la ritrovata dignità dell’esperienza individuale assegnava un valore aggiunto al recupero del genere letterario epistolografico. Altri generi letterari, per esempio quelli riconducibili agli ambienti cortesi, si facevano più complessi e raffinati, tenendo d’occhio un pubblico allargato; magari talvolta effettuando il passaggio ai nuovi lettori/ascoltatori nell’ambito della stessa opera, come nel Roman de la Rose la cui prima parte resta attaccata alle allegorie aristocratico-cortesi mentre la seconda rispecchia la varietà del nuovo mondo urbano, ottenendo considerazione – non casualmente – dall’Alighieri, soprattutto se a quest’ultimo è attribuibile il Fiore che del Roman è diretta filiazione. Di questa nuova società è immagine perfetta il Decameron, dove perfino la figura monarchica, il clero e il culto sono sbeffeggiati in maniera spregiudicata (o forse, semplicemente, al passo con i tempi). Ma l’aspetto più interessante, in una raccolta di saggi mirante a ricondurre a una visione complessiva del basso medioevo, è la constatazione di una letteratura che dilata le proprie competenze innervandosi in tutti rami dell’esperienza umana della nuova Europa, per quanto risulti necessariamente privilegiata l’area italiana in quanto ricettiva e al tempo stesso ispiratrice di idee e innovazioni; senza togliere nulla a un’altra area strategica, quella francese, da cui giunge lo sviluppo del romanzo quale massima affermazione dell’arte di raccontare. Parallelo è pertanto il successo della prosa, più adatta – di fronte al carattere artificioso del verso – a riferire certi contenuti in maniera articolata, come dimostra anche la trasposizione prosastica di tanta materia epica: le storie di armi e di amori, più o meno affrancate dalle formule convenzionali, ne risultano rivitalizzate. Il teatro passa dal dramma sacro alla rappresentazione profana, anche servendosi di un linguaggio realistico fino alla spregiudicatezza; nelle arti visive, nonostante la persistenza delle seduzioni orientali (soprattutto grazie alla pittura bizantina coeva, ormai affrancata dalla taccia di sterilità) si assiste a ulteriori mutazioni: la cattedrale, diventata un altro segno dell’urbanizzazione (seppur in maniera differente fra Italia centrosettentrionale e Nordeuropa, dove il potere regio comprime l’orgoglio cittadino mentre invece al di qua delle Alpi il palazzo comunale tende a soppiantare il castello), altera il plurisecolare rapporto con la basilica suburbana dedicata al protovescovo e si afferma come polo delle attività laiche più disparate nel mondo comunale, conservando così un ruolo fondamentale; ma essa diventa altresì il campo di cimenti tecnico-architettonici inauditi, con conseguente promozione professionale e sociale della figura dell’architetto come nel caso di Arnolfo di Cambio. Riguardo alla sistemazione interna della cattedrale, soprattutto dal punto di vista delle arti plastiche, il gusto per il fantastico (fino agli estremi della teratologia) si svincola dalle letture romaniche e si armonizza con il naturalismo che prepara l’ingresso dell’umanesimo anche nel territorio del sacro. Restando nella scultura, il naturalismo si coniuga efficacemente anche con il classicismo ritrovato, come alla corte di Federico II di Svevia o negli ambienti dell’Antelami e di Nicola Pisano il cui figlio Giovanni avanza ancora di più verso una realtà non più propriamente medievale: egli rappresenta infatti l’artista consapevole del proprio talento, che impone la propria personalità perfino nella ricerca della rivalità con la figura paterna. Inevitabile, nella pittura, l’esame del successo irreversibile che il naturalismo degli spazi e dei corpi vi riscuote soprattutto con Giotto, al quale già Giovanni Villani riconosceva il primato nella rappresentazione degli “atti al naturale” e che dà un contributo decisivo alla collocazione delle arti figurative fra quelle liberali.

I segni del cambiamento non potevano a lungo andare restare al di fuori del dibattito sul potere, di cui – anche nella Chiesa – si diffondeva sempre di più l’idea di una legittimazione dal basso; ma le teorie sono diverse, in quanto si passa da un Dante (il cui pensiero, ricco anche di sperimentazioni ingiustamente sottovalutate a causa dell’inevitabile confronto con la Commedia, è la summa del pensiero medievale ma anche un punto di superamento del medesimo) oppostosi alle ingerenze pontificie nell’azione imperiale – lasciando al papa la “superiorità del fine” – a Guglielmo di Ockham che autorizza l’eventuale deposizione di papi indegni da parte del potere politico, fino alle posizioni estreme di Wyclif e ai distinguo di Marsilio da Padova.

In conclusione, quella curata da Umberto Eco è un’opera di sintesi ma dalla ricca articolazione interna, volta a individuare la crescita della complessità e delle interconnessioni all’origine del mondo moderno, preparata vari secoli prima delle “scoperte” tradizionalmente poste all’origine del medesimo. La reazione autoritaria fu energica e ne fecero le spese pensatori anche grandissimi, fra i quali – oltre a quelli nominati in precedenza – spicca pure Meister Eckhart che con essi condivideva la presa di distanze, non a caso condannata, rispetto alla mediazione ecclesiastica nel rapporto fra l’uomo e Dio; e anche negli altri campi, come è noto, l’opposizione all’avanzata dei nuovi saperi agì con rigore facendo dell’avvento del mondo moderno un parto doloroso, un’idea di fondo che quest’opera, sfaccettata ma coerente nonostante la quantità dei contributi, fa propria sin dalle prime pagine. In ogni settore studiato (pressoché tutti quelli del sapere medievale) si fa un censimento ragionato delle personalità significative e delle loro realizzazioni; i saggi sono preceduti da agili presentazioni dell’analisi in essi effettuata, ma soprattutto sono seguiti da sistematici rimandi agli altri studi dedicati allo stesso argomento all’interno del volume, il quale acquista così un taglio quasi informatico; chiudono l’opera tavole cronologiche e l’indice onomastico.

Autori e curatori hanno forse tenuto in mente la lezione degli enciclopedisti bassomedievali, allestendo una raccolta di saggi intesa a sistemare il sapere acquisito; ne è risultata un’opera volta più all’alta divulgazione che all’innovazione, e per questo utile strumento anche per i docenti delle scuole secondarie, ai quali servirà per impartire un’idea meno ingessata e più dinamica del millennio medievale. Ma non solo a loro gioverà, soprattutto di questi tempi esposti alle contaminazioni del neomedievismo d’accatto, questo autentico arsenale di dati e riflessioni in grado di strappare al medioevo la patina di epoca irrazionale e antiscientifica.

Giuseppe Ligato

 

 

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